«Non chiamatele erbacce, sono specie di piante autoctone, alcune delle quali endemiche, d'interesse conservazionistico». Il presidente della sezione sarda della Società Botanica Italiana, Emmanuele Farris, interviene nell’ambito del dibattito nato nella comunità algherese in merito ai lavori di sistemazione a fini imprenditoriali turistici di un tratto di litorale costiero nella zona di Calabona. Farris tiene a precisare che il suo intervento è in qualità di botanico, senza voler avanzare valutazioni di merito sulla legittimità e opportunità dei lavori in corso per la realizzazione di una pedana-solarium e di un pontile per l’ormeggio di piccoli natanti.

«Quindi il mio primo messaggio all'opinione pubblica, è che bisogna capire che la sostenibilità, la rinaturalizzazione, lo stato di degrado e tante altre valutazioni di cui si è letto e sentito parlare nelle scorse settimane, non sono di tipo soggettivo e quindi chiunque le può esprimere, ma sono di tipo quantitativo (quindi misurabili) e andrebbero lasciate valutare e definire dagli specialisti», premette il botanico. «Nel caso specifico, i lavori eseguiti hanno cambiato lo stato dei luoghi, alterando profondamente tanto le caratteristiche del substrato geopedologico quanto la soprastante copertura vegetale, che non era costituita da erbacce, come impropriamente alcuni hanno affermato, ma da specie di piante autoctone, alcune delle quali endemiche, d'interesse conservazionistico come il Limonium nymphaeum, che caratterizza l'habitat comunitario 1240 tutelato dalla Direttiva EU numero 43 del 1992. Pertanto, dal punto di vista botanico – avverte - la modifica del substrato, l'eliminazione della componente vegetale autoctona e la sua sostituzione con piante ornamentali estranee all'ecosistema, non configurano una rinaturalizzazione ma una artificializzazione del sito, e nulla hanno a che vedere con l'ingegneria naturalistica».

Emmanuele Farris si domanda anche come sia stato possibile, da parte degli enti pubblici, «rilasciare autorizzazioni di questo tipo (che il privato chiede legittimamente nell'esercizio della sua funzione imprenditoriale) senza tutelare il bene pubblico con tutti gli accertamenti preliminari e preventivi necessari. E inoltre stupisce come si possa procedere ad interventi così impattanti sugli ecosistemi (in questo caso quello costiero) in territori sprovvisti di strumenti di piano. La mancanza del PUC e del PUL (tra gli altri) impedisce infatti di calare un intervento di questo tipo nel contesto territoriale, valutarne gli impatti non solo sul sito specifico d'intervento ma anche sull'area vasta, e ipotizzare misure di mitigazione e di compensazione».

Infine, sempre secondo il presidente della sezione sarda della Società Botanica Italiana, le concessioni su aree pubbliche dovrebbero includere clausole di condizionalità. «In altri contesti italiani ed europei è la norma che il concessionario, per utilizzare a fini imprenditoriali un'area pubblica, ne "adotti" un'altra simile che deve aver cura di vigilare, pulire e tutelare a beneficio della comunità, proprio come forma compensativa», spiega meglio Farris. «È quindi necessario un profondo cambio culturale per la gestione delle risorse ambientali, cambio che deve riguardare tutte/i noi, certamente chi fa impresa, ma in primo luogo le istituzioni deputate alla tutela e gestione dei beni pubblici».

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