La sera dell’8 gennaio 1991 Luigi Pinna guarda insistentemente l’orologio. Ha fretta, deve passare da un amico a Maracalagonis e andare con lui in palestra a Sinnai alle 19. Sono le 18,30 ed è in montagna, sotto le antenne di punta Serpeddì, a 700 metri di altitudine e 8 chilometri dal centro abitato. Sta sistemando il muretto di recinzione per il ricovero delle capre del suocero Gesuino Fadda a Cuile is Coccus, ma ormai è buio e non può trattenersi oltre. Lascia gli attrezzi e saluta quando due esplosioni in sequenza lo bloccano. Subito dopo, qualche decina di metri più a valle, sente le urla del pastore Ignazio Pusceddu rivolte a Giuseppe, figlio del proprietario: «Prendi il fucile, stanno sparando a tuo padre».

La strage

È l’inizio di una mattanza, la “strage di Sinnai”, che nell’arco di pochi minuti lascerà sul terreno tre cadaveri e una quarta persona moribonda, sopravvissuta miracolosamente alla furia omicida e decisiva per indirizzare gli inquirenti verso il colpevole: il pastore Beniamino Zuncheddu di Burcei, oggi 57 anni, condannato all’ergastolo, in carcere dal febbraio 1991. Da 31 anni giura di essere innocente, vittima di un errore giudiziario, ma secondo tre sentenze identiche nelle conclusioni era stato lui a far fuori la famiglia Fadda grazie a un’azione quasi militare nello sviluppo e nella precisione. Dopo aver freddato Gesuino, incrociato sulla stradina che portava ai caseggiati poco più a monte, aveva fatto fuori il figlio, andato a cercare (senza riuscirci) un fucile calibro 16 nascosto nel fienile per ogni evenienza, quindi era entrato nel casolare dove si trovavano il cucinino e la stanza con le brande e qui, aprendo la porta con un calcio, aveva ucciso Pusceddu per poi sparare due volte contro Pinna. Sicuro di aver eliminato ogni testimone, coperto dall’oscurità era rientrato a Burcei, circa mezz’ora di viaggio sul suo vespino, per poi andare a casa di un’amica. Invece il giovane muratore era vivo. Aveva trascorso una notte intera col rischio di dissanguarsi, sino all’arrivo dei soccorsi. La sua testimonianza aveva inchiodato Zuncheddu: lo aveva riconosciuto, seppure a distanza di un mese e nonostante in un primo momento avesse detto che l’assassino aveva una calza di nylon sul volto. «Avevo paura che mi potessero ammazzare», si era giustificato rivelando che, in realtà, l’omicida aveva agito a volto scoperto.

Il movente

Dichiarazioni insuperabili, una volta legate alle risultanze investigative. Per i giudici il pastore di Burcei aveva agito per metter fine a contrasti che «dal 1988» secondo i giudici avevano reso il territorio «una polveriera pronta a esplodere». Tutto ruotava attorno alle diatribe tra chi lavorava a Cuile is Coccus, cioè i Fadda (che avevano mille tra capre e pecore ed erano «in regola» coi pascoli, perché dal Commissario per gli usi civici avevano ricevuto in uso i terreni circostanti), e chi gravitava sul vicino Masone Scusa, ovile “collettivo” usato dai burceresi «che la facevano da padroni». Sconfinamenti del bestiame, liti, minacce. I Fadda avevano comprato una muta di cani per allontanare (e uccidere) le vacche altrui, ma era stata ammazzata. Una seconda era stata impiccata perché i proprietari potessero vederla. I pastori di Masone Scusa lamentavano a loro volta le fucilate esplose contro i propri ovini. In un’occasione Gesuino e Giuseppe Fadda erano corsi dai vicini con una roncola e un bastone. Quel giorno Beniamino Zuncheddu disse ai rivali: «Se facessero a voi quel che fate alle vacche...». La prova della sua colpevolezza, secondo i giudici. L’indagato aveva sostenuto di essere rientrato in paese alle 17,45 per andare da un’amica intorno alle 19,30, ma per la Corte d’assise in quell’ora e mezza di buco poteva portare a termine il massacro; inoltre i due testimoni che solo dopo mesi avevano rivelato di averlo visto in paese proprio alle 18,30 erano «falsi e compiacenti». Zuncheddu era stato «riconosciuto dalla vittima», aveva «il movente», aveva «minacciato» di morte le vittime, si era «preparato un alibi falso». Quindi «è colpevole».

An. M.

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