Tempo a disposizione ne ha a sufficienza. Il pallottoliere del calendario giudiziario segna 13 ergastoli, più 134 anni di galera raccolti con sentenze in ordine sparso. Leoluca Bagarella, in arte “Don Luchino”, classe 1942, al suo matrimonio, nel lontano 1991, non ebbe dubbi nello scegliere la colonna sonora per le sue nozze. Le note de “Il Padrino”, per lui, furono profetiche. La carriera fu subito tutta omicidi e stragi, scalando le classifiche dei “Capi dei Capi”, anche grazie all’altro matrimonio di famiglia, quello della sorella Antonia, con il vero numero uno, Totò Riina. Dall’omicidio del capo della polizia di Palermo Boris Giuliano alla strage di Capaci, con l’uccisione di Giovanni Falcone, “Don Luchino” non si è fatto mancare niente.

Il pugno del “Padrino”

L’ultimo fotogramma di una carriera ai vertici della mafia più cruenta, l’anima terroristica dell’organizzazione, è racchiuso in un video di sorveglianza del carcere di Bancali, a Sassari, aperta campagna alla periferia del polo industriale di Porto Torres. Nell’immagine frizzata è chiaro il gesto del corleonese, capomafia per missione: un cazzotto in pieno volto ad un agente penitenziario che lo stava riaccompagnando nella sua cella, da sempre al 41 bis, prima a Badu ‘e Carros poi, dopo le mille proteste, spedito a Sassari. Gesto a freddo, come raccontano i verbali di quell’ennesimo atto di arroganza che segna la burrascosa detenzione dell’ultimo dei capi di Cosa Nostra. Le esibizioni da boxer non sono una novità per il detenuto più “illustre” della Guantanamo mafiosa in terra di Sardegna. A gennaio dello scorso anno aveva preferito l’uso delle mandibole per incidere un morso violento nientemeno che a uno degli uomini del corpo speciale, quello dei Gom, dediti alla custodia dei boss più pericolosi.

Detenuti pesanti

Lui, il cognato del fu Totò Riina, è solo la punta avanzata di una vera e propria polveriera carceraria, senza agenti e direttori, sovraccarica di detenuti pericolosi che ogni giorno mettono a rischio l’incolumità del personale penitenziario. Da sempre si sa che dentro quelle mura, oltre le sbarre, i detenuti non si contano, si pesano. Non in chili, ma in capacità di delinquere, di aggredire, di provocare e rendere infiammabile qualsiasi occasione utile a destabilizzare la sicurezza del carcere, da Bancali a Uta, passando per Nuchis, frazione di Tempio, Massama, nell’agro di Oristano, sino ad arrivare a Nuoro, nell’inferno di Badu ‘e Carros. I sindacati non fanno in tempo a denunciare continue aggressioni e tensioni, turni massacranti e tecnicamente insopportabili.

Pacche & parole

Da nord a sud dell’Isola la tensione sale ogni giorno di più, con i vertici del Dap che da anni, senza mai niente di concreto, continuano a rassicurare sull’invio di nuovi agenti o nuovi direttori. Da anni solo parole, pacche sulle spalle, con l’inferno che monta ovunque. Alla base di tutto c’è una scelta folle di inviare in Sardegna un numero impressionante di detenuti di AS, definizione che sta per Alta Sicurezza.

Cayenna sarda

Ci sono quelli di AS1, appena usciti, più per ragioni burocratiche, in ottemperanza ad una decisione europea, che di merito dal 41 bis e transitati in un grado di detenzione più lieve, ma pur sempre da allerta massima. Poi ci sono gli AS2 destinati al circuito detentivo per «soggetti imputati o condannati per delitti commessi con finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza», vedasi i jihadisti e, infine, quelli dell’Alta Sicurezza 3, circuito riservato a coloro che hanno rivestito un ruolo di vertice nelle organizzazioni criminali dedite allo spaccio di stupefacenti. Nella cayenna sarda ne hanno spedito tra i 520 e i 550, tra capimafia a detenzione alleviata, terroristi e spacciatori internazionali. A questi vanno aggiunti 90 detenuti destinati al regime più pericoloso ora denominato ex 41bis, ma che resta pur sempre il carcere duro, quello dove finiscono i capi dei capi.

640 mafiosi e camorristi

In meno di tre-quattro anni il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria ha spedito nell’Isola ben 640 mafiosi, camorristi, esponenti di primo piano della ’Ndragheta e della Sacra Corona Unita. Un pullulare di criminali da far impallidire, dentro e fuori il carcere, le peggiori Cayenne. Un concentrato di criminalità organizzata che confligge con le più elementari regole della gestione dell’ordine pubblico di un Paese di buon senso.

Aree non Regioni

In realtà, quella decisione folle di spedire in Sardegna, questa valanga di mafiosi nasce da una norma di inasprimento del regime detentivo che aveva previsto, “preferibilmente” di inviare questi detenuti in “aree insulari”. Il Dap, con una visione coloniale, ha scambiato “aree”, ovvero piccole isole, da Pianosa a Pantelleria, con Regioni insulari, individuando la terra sarda come la prima destinazione di tanta manovalanza criminale. In un primo tempo, i ben pensanti, hanno sostenuto che dentro il carcere non avrebbero creato alcun problema. Nessuno se ne sarebbe accorto, sostenevano illuminati esponenti della corrente di pensiero che individuava la Sardegna come una vera e propria colonia, ovvero “discarica” penitenziaria. In breve tempo quella visione si è scontrata con la realtà: carceri inadeguate, personale insufficiente e sovraccarico di compiti, persino case circondariali trasformate di fatto in carceri di massima sicurezza senza nemmeno il direttore.

Allarme Antimafia

All’inferno dentro le carceri si deve sommare quanto di più preoccupante sta avvenendo fuori. Nessuno, dalle istituzioni alla politica, continua a tenere conto di quanto ha scritto nemmeno un anno fa la Direzione Investigativa Antimafia del Ministero dell’Interno. Nel report semestrale il paragrafo Sardegna è la fotografia di un intreccio sempre più forte tra la criminalità organizzata, dalla mafia e la camorra, e quella locale. Una saldatura pesante, dalle armi alla droga, passando per l’energia eolica sino ai rifiuti. Con un passaggio cruciale che dovrebbe indurre uno Stato responsabile a ritornare sui suoi passi, bloccando per sempre quel flusso continuo di mafiosi e camorristi verso la Sardegna. Scrivono i report dell’Antimafia:«Appare necessario un costante monitoraggio volto ad impedire il rischio di infiltrazioni nel tessuto socio-economico oltre alle attività preventive e repressive volte a contrastare gli altri traffici illeciti. Un interesse ad intraprendere queste attività criminali potrebbe essere manifestato dai nuclei familiari dei detenuti mafiosi ristretti presso gli Istituti penitenziari dell’isola, che si avvicinano ai loro congiunti per evitare il c.d. pendolarismo per ragioni di colloquio». Non ci vuole un traduttore: tanti capimafia concentrati inducono le famiglie a trasferirsi in Sardegna per evitare “il pendolarismo per ragioni di colloquio”.

Infiltrazione criminale

Dunque, infiltrazione mafiosa. Un tema con il quale non si scherza. Scrivono sempre gli inquirenti: «Esistono tuttavia evidenze, rilevate nel tempo, della presenza di soggetti collegati alle “mafie tradizionali” nonché alle proiezioni delle stesse che, oltre ad essere attivamente coinvolti nel traffico di stupefacenti, hanno evidenziato interessi nel riciclaggio dei proventi delittuosi realizzati in altre regioni. Il turismo in Sardegna invoglia le consorterie a ricercare forme di investimenti, soprattutto nel settore ricettivo e immobiliare che in alcune aree territoriali possono essere particolarmente significativi sul piano della redditività».

Cagliari a rischio

In una delle ultime relazioni dell’Antimafia il riferimento a Cagliari, poi, è esplicito: «Il capoluogo di regione appare maggiormente esposto all’influenza delle consorterie tipiche (campane e calabresi), le quali non disdegnano, tramite i consociati, di avviare collaborazioni criminali con le bande locali, soprattutto nei settori degli stupefacenti e delle armi». Un allarme ignorato da tutti e che ora rischia di trasformarsi in una vera e propria polveriera.

100 capiclan

Dai documenti in nostro possesso emerge un piano di dettaglio per completare entro l’anno il padiglione del 41 bis nel carcere di Uta e spedire nel cuore dell’area metropolitana di Cagliari non meno di 100 capimafia. Un lavoro sotterraneo ha già portato all’affidamento di incarichi per mettere a segno questo nuovo blitz in terra sarda.

Riparte il cantiere

Il cantiere di Uta, fermato da fallimenti e pasticci, sfociati in un’inchiesta penale, potrebbe presto diventare la nuova casa di Leoluca Bagarella & company. Lui, che le carceri sarde più dure le ha girate tutte, dall’inferno di Badu ‘e Carros al 41 bis di Sassari, ha tutte le carte in regola per inaugurare il nuovo padiglione del 41 bis di Uta. Del resto nella colonia carceraria, nell’Isola di Sardegna, non si aspettava altro. 

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