Dentro quei venticinquemila volantini c'è la storia di sua moglie, morta in circostanze poco chiare al Santissima Annunziata di Sassari.

Casomai voleste saperne di più, proprio di fronte all'ingresso dell'ospedale Gian Giacomo Dionisi ha allineato diciassette cartelli, scritti col pennarello grosso: raccontano le tappe di una via crucis sanitaria finita in obitorio. La gente passa, si ferma incuriosita, legge. Qualcuno si avvicina per una stretta di mano, una vecchietta appende una rosa rossa tra un cartello e l'altro, un pensionato osserva sconsolato e si stringe nelle spalle. Probabilmente prova pena per quest'uomo che pare un piazzista della disperazione. Contro tutto e contro tutti. Non si arrende. «La battaglia per la verità su mia moglie è l'unica ragione che ho nella vita».

A suo tempo, Dionisi ha presentato un esposto alla Procura della Repubblica ma l'inchiesta è stata archiviata. «Il medico legale, che ha eseguito l'autopsia, era dipendente Asl: figurati se sparava addosso ai suoi colleghi». Dunque lavora per far riaprire il caso. Nel frattempo, rispetta le regole: prima dei suoi blitz in strada, chiede il permesso alla Questura. Ha manifestato e distribuito, se così si può dire, anche davanti al palazzo di giustizia.

La morte di Mariolina Vannini Poggi, casalinga di 69 anni, è stata imprevedibile e straziante. Il marito, che da allora dorme due ore per notte, non si dà pace. È assolutamente convinto che dietro questa vicenda ci sia un aberrante capolavoro al confine tra asineria e malasanità. Per questo ha fatto stampare i volantini, per questo vuole creare una sorta di Comitato in memoria dei morti ammazzati per sbaglio da medici incompetenti, per questo prepara le carte puntando a ottenere una riapertura del caso.

Diploma di ragioniere e tre anni di Medicina, Gian Giacomo Dionisi è un sassarese di 68 anni. Due figli (uno abita con lui a Tissi), è stato City manager della Hertz ma ha lavorato soprattutto come bioterapeuta: proponeva cure (non alternative a quelle tradizionali) con l'utilizzo delle piante officinali della Sardegna. Due infarti. È stato candidato-sindaco dei Verdi (milleseicento preferenze), parla inglese e francese, mostra una sorprendente lucidità che tuttavia lascia intravedere un furore quieto, composto, perfino umile.

«Io e Mariolina siamo stati sposati 43 anni. Uscivamo tenendoci per mano, come fidanzati. E in effetti fidanzati lo eravamo ancora, anche da sposati. Mi ricordo d'un misterioso segnale il giorno del matrimonio. Stavamo sui gradini della chiesa in una giornata solare, immobile, senza vento: all'improvviso una forza segreta ha sollevato il velo della sposa avvolgendomi il capo. Chiaro il messaggio, no? Ti ho preso, ti ho catturato, sarai mio per sempre. Ho vissuto con mia moglie una vita straordinaria, serena, piena. Una vita che non dimentico e che torna ogni giorno alla mente, lampi di memoria che fanno lievitare la mia rabbia. Non posso perdonare che me l'abbiano uccisa, meno ancora scoprire che un cittadino qualunque deve tenere sempre china la testa. Mai sfiorare gli intoccabili. Altrimenti, nella migliore delle ipotesi, risulti matto».

Nel 2008 Mariolina Vannini Poggi accusa un attacco di colite più fastidioso del solito. Il marito le suggerisce un digiuno totale di due giorni ma la cosa non risolve nulla. Le analisi di laboratorio rivelano tracce di sangue nelle feci. Un'ecografia non basta a chiarire. Il medico prescrive una colonscopia. Dionisi ricorda molto bene quel giorno in un ambulatorio del Santissima Annunziata.

«Non l'hanno sedata. Hanno eseguito l'esame da sveglia. Le urla di mia moglie si sentivano fino a tre reparti di distanza. Io, che aspettavo fuori, ho bloccato un medico, tentato in tutti i modi - senza essere violento o arrogante - di far interrompere quel supplizio ma non c'è stato verso. È per il suo bene, mi dicevano. Suo di chi? Alla fine, mi hanno restituito mia moglie in stato di choc, il viso pallido e affilato. Appena ha potuto parlare, mi ha detto che ha provato dolori molto più forti di quelli del parto, di aver inutilmente supplicato il medico di finirla lì».

Rientrata a casa, in attesa d'essere ricoverata per un intervento chirurgico (la colonscopia aveva rivelato un tumore al colon), Mariolina sta male. Ha febbre che oscilla fra i 39 e i 40. Riesce a mangiare mezza mela cotta ma dopo un po' vomita. Una settimana dopo torna in ospedale. Una Tac conferma la prima diagnosi. Niente metastasi ma il tumore c'è e ha raggiunto proporzioni preoccupanti. Alla fine di novembre 2008 la speranza passa dalla sala operatoria.

«Io aspetto, come sempre. Sto seduto in una seggiolina in attesa che, a operazione finita, qualcuno mi dia informazioni, mi faccia sapere. Finalmente arriva il chirurgo e dice una frase che mi è rimasta impressa: abbiamo ripulito tutto. Non aggiunge altro, resta sul vago e a quel punto mi viene il sospetto che abbiano scoperto una verità ovvia: la colonscopia, eseguita a pera, ha provocato una perforazione intestinale e loro ci hanno messo rimedio col bisturi».

Dopo una degenza abbastanza breve, Mariolina viene dimessa nonostante abbia la febbre (e nessuno sa perché). Al momento dell'uscita dall'ospedale il termometro segna 38,6. Dionisi blocca uno dei medici del reparto e domanda se è il caso di portar via la moglie. Gli rispondono che la paziente sta benissimo, quanto alla febbre si tratta di una banale laringite. Si torna a casa, a Tissi, ma la situazione non migliora. Mariolina vomita continuamente e avverte bruciori insopportabili alla gola. Chiede al marito di irrorarle la bocca d'acqua gelata. Non passa neppure la febbre, anzi. Una notte arriva a 40,6.

«Mi allarmo, mi dispero. Che fare? Avvolgo mia moglie in una coperta e vado di corsa nel reparto dove è stata operata. Il medico di guardia tenta di cacciarmi perché non sono passato dal pronto soccorso e lui non può accettare pazienti che non provengano da lì. Minaccio di rivolgermi ai carabinieri, trascorrono minuti difficili. Poi il medico si arrende e visita Mariolina. La signora ha una brutta laringite, mi liquida. Gli faccio notare che mia moglie ha la lingua nera. Non scura, nera. È una setticemia, dico. E quello tranquillo: mannò, domani faremo le analisi, adesso vada pure a casa. A quel punto esco di testa, chiedo del primario (che a quell'ora non può esserci), mi rifiuto di andar via e aspetto l'alba su una delle solite seggiole. La rivedo alle otto del giorno dopo».

Alle otto del giorno dopo la paziente sfila davanti al marito su una barella che la porta in Radiologia. Verso mezzogiorno, le portine dell'ascensore si spalancano e la restituiscono al reparto. Nel frattempo però qualcosa dev'essere accaduto perché la signora ha il viso coperto di bende intrise di sangue (gli esami successivi, relativi all'inchiesta giudiziaria, parleranno di contusione del setto nasale). L'infermiere che la sta riaccompagnando in stanza non ne sa nulla, i medici neanche. Da quel giorno (9 dicembre 2008) fino all'antivigilia di Natale le cose vanno sempre peggio: Mariolina vomita 74 volte nelle ore diurne, mostra sfinimento e nessuna capacità di reazione. «Assalgo il primario, insisto perché tenti di capire cosa sta accadendo. Alla fine, ma solo perché di me non ne può più, accetta di fare un nuovo intervento chirurgico. Al termine, mi spiega che non aveva mai visto niente di simile: i punti della prima operazione non hanno retto e c'è stato un infarto intestinale con setticemia diffusa».

«Lascio a voi qualunque commento. In quei giorni mi sentivo avvilito, stavo accanto a quella che sembrava l'ombra della mia Mariolina. Tento di starle vicino il più possibile. Intanto i vomiti cessano e la temperatura corporea s'abbassa. Però arriva una complicanza: broncopolmonite. Interrogo un medico per sapere se è possibile aspirare il catarro e consentire così una respirazione più libera. Mi fulmina dicendo che non può farlo: è pericoloso aspirare il catarro perché la signora ha un buco in gola. Un buco in gola? Inutile provare di venirne a capo, nessuno è disposto a darmi una parola di spiegazione. E allora ci ragiono sopra: se Mariolina ha un buco in gola è probabile che il vomito abbia invaso i polmoni provocando un'infezione. Giusto? Non lo saprò mai».

Il 27 dicembre 2008 Gian Giacomo Dionisi si rende conto che la moglie è agli sgoccioli. Col pretesto di farle fare la Comunione («La faceva sempre»), chiama un prete e le fa dare l'estrema unzione. La mattina dopo, mentre la guarda muto a fianco al letto, s'accorge d'un tratto che un'inquietante linea luminosa corre sul monitor, manda un lampo e scompare. È il cuore che sta chiudendo la partita. Scatta l'allarme, iniziano le procedure d'urgenza, Mariolina si riprende e viene trasferita in Rianimazione.

«Aveva il cannello dell'ossigeno sul naso tumefatto. Non poteva parlare, le ho letto negli occhi che stava soffrendo da impazzire, che mi chiedeva aiuto. Era terrorizzata, stava pian piano prendendo coscienza che ormai c'era soltanto un velo tra lei e la morte».

Le cartelle cliniche definiscono Mariolina Vannini Poggi costantemente sveglia e rispondente . Il primo gennaio del 2009 la paziente entra però in coma e muore la mattina del 2. Gian Giacomo Dionisi deve ricomporla, organizzare i funerali assieme ai figli, discutere di bare, loculi in cimitero, necrologi. Attraversa la primissima fase del lutto con distacco e freddezza. Un attimo più tardi esplode: vuole la verità. Presenta un esposto alla Procura della Repubblica, precisa che nelle cartelle cliniche non c'è traccia della lingua diventata nera né dei motivi per cui, al rientro da Radiologia, Mariolina aveva il viso coperto da bende. Il pubblico ministero dispone l'autopsia. Che non rileva nulla di irregolare: nessuna lesione sul corpo fatta eccezione di un edema orbitale. Il Pm chiede l'archiviazione, il gip accoglie. Il caso è chiuso.

«Chiuso un corno. Non può finire così».

Due magistrati, non uno soltanto, sono arrivati alla stessa conclusione.

«Sono stati depistati dal perito, dal medico legale insomma».

Che interesse aveva il perito a depistare?

«Un interesse enorme. Prima di tutto, è un dipendente della stessa Asl che io mettevo sotto accusa. E inoltre puntava a conquistare un incarico di prestigio al vertice del Santissima Annunziata. Cane non mangia cane».

Che significa?

«Significa che non sarebbe mai andato contro i colleghi. Cosa mai poteva importargliene di una povera disgraziata morta in corsia? Sto provando a far riaprire il caso evitando con cura periti locali. Non solo: il nuovo esposto non lo presenterò al Tribunale di Sassari».

Non si fida?

«Preferisco cambiare aria, voglio che a valutare la vicenda siano persone davvero estranee».

È cosciente che si sta avvelenando l'esistenza?

«Quello che è accaduto ha provocato in me un'incredibile capacità di reazione. Non pensavo di avere tanta forza, tanta resistenza. Devo abbattere il muro dell'omertà in camice bianco. Lo faccio per mia moglie, per i pazienti di oggi e di domani, per i medici onesti che ancora esistono».
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