È dialetto bergamasco ma ormai tutta l'Italia sa che mola mia significa "non si molla!". Paolo Cannas, che come maratoneta già di suo è uno duro a morire, l'ha letta e sentita dire mille volte durante le tre settimane trascorse a Bergamo. Infermiere (da dodici anni opera in dialisi a San Gavino), è stato tra i primi a rispondere alla chiamata della Protezione Civile per far parte del contingente di volontari da mandare al fronte del Covid-19. Con la sua esperienza (dal pronto soccorso pediatrico alla terapia intensiva neonatale, dalla pediatria alla rianimazione, con esperienze anche a Milano e Olbia) ha capito subito che poteva risultare utile.

Quando ha deciso di fare domanda?

«Mia moglie mi ha mostrato il bando appena è uscito. Ho fatto domanda subito: c'erano 500 posti, hanno scritto in quasi diecimila. Sono stato preso tra i primi».

Perché voleva andare?

«Sentivo che stava succedendo qualcosa di particolare. La mia missione è iniziata dal momento in cui ho fatto la domanda. Correre questo rischio, stare lontano da casa, sono decisioni che ho voluto condividere con mia moglie e i miei figli. Senza il loro consenso non sarei andato».

E l'hanno arruolata.

«Sì, ho fatto il primo controllo il 3 aprile, a Roma. Poi il volo sull'aereo della Finanza e l'arrivo a Bergamo, nella struttura costruita dentro la Fiera. Ho rifatto il tampone all'uscita del turno di domenica scorsa, a Bergamo. Lunedì abbiamo atteso il referto che era negativo, ma non essendoci urgenze al rientro nell'Isola abbiamo preferito rispettare comunque la quarantena. Altrimenti sarei potuto rientrare al lavoro».

Ci parli del reparto aggiuntivo del "Papa Giovanni XXIII".

«Siamo stati tra i primi a entrare, dopo la squadra di Emergency e i militari russi. L'esperienza di Emergency in Africa ha suggerito anche la progettazione della struttura, ideata in due giorni e realizzata in otto. Dopo dieci giorni, il 5 aprile, sono entrati i primi pazienti e sono arrivato anche io, dopo una formazione sui software che si usano nella struttura, un aggiornamento sulle modalità di assistenza respiratoria. Siamo subito entrati in modo operativo, gestendo le unità di terapia intensiva».

Quanti pazienti?

«Ce ne stanno 70, ma di norma ce n'erano una ventina, che poi venivano trasferiti in terapia subintensiva quando stavano meglio. Ho conosciuto casi di persone che sono lì dentro da due mesi».

Prima impressione?

«Ci siamo resi subito conto della realtà, del coraggio delle persone che lavorano, della gentilezza chi ci ha accolto, parlo degli abitanti. Tutti ci ringraziavano in ogni modo, dandoci un tulipano, un uovo di Pasqua, una brioche al mattino. Uno chef, Vittorio (3 stelle Michelin) ha messo a disposizione i cuochi per la mensa dell'ospedale. Ho vissuto a Milano e pensavo che Bergamo fosse una realtà simile. Non è così. Mi sono trovato a stringere amicizie che sento dureranno per sempre. E naturalmente con qualcuno ci siamo scambiati la promessa di andare a correre nelle rispettive città».

I suoi colleghi di lavoro?

«Infermieri, alpini, medici con enormi responsabilità, tutti sempre umili. Là dentro, con le tute e il nome scritto sopra con un pennarello, ci si chiamava per nome. Si parlava con gli occhi. Poi magari in mensa in borghese quasi non ci si riconosceva».

Cosa si può imparare dalla gente di Bergamo?

«Noi sardi, in generale, possiamo imparare la forza di volontà. A loro è esplosa una bomba in casa e hanno reagito subito. Si sono messi tutti a collaborare, dai medici ai tifosi dell'Atalanta, a persone che hanno perso parenti, genitori. Ho conosciuto una signora di 91 anni che nella propria palazzina è rimasta l'unica sopravvissuta. Molti all'improvviso hanno perso tutti e lo hanno affrontato con dignità, senza uscire di testa. Cose non comuni ».

Paura?

«Fa parte della nostra vita in ogni cosa che facciamo, nel nostro mestiere c'è sempre stato. Negli anni Ottanta temevamo l'Aids, ma forse era una cosa più tangibile. Adesso chiunque può essere quello che ti contagia. Perciò dentro la struttura dovevi essere lucido in ogni gesto: toccarti la mascherina, grattarti l'orecchio, sollevare la visiera. Ci igienizzavamo le mani molto spesso. C'è un rigido protocollo per vestizione e la svestizione, che prevede la presenza di un tutor 24 ore su 24. Anche durante le pause. Emergency ha reso i nostri abituali protocolli ancora più rigidi».

Chi è Paolo Cannas, rispetto a un mese fa?

«Ci sono tante differenze. Un'esperienza così ti cambia presente e futuro. Lo cambierà a tutti. Ho avuto una grande fortuna a viverla e penso di essere cambiato in meglio. Vorrei condividere con tutti in Sardegna ciò che ho appreso. Divulgare il loro esempio, non il mio. Sono stato ringraziato da tanti ma sono io grato per aver potuto condividere questo dramma e aver lavorato con loro per cercare di risolverlo. Sono diventato un po' bergamasco. E ora dico mola mia anche io».

Carlo Alberto Melis

© Riproduzione riservata