L’Italia “scopre” la peste suina, quasi ignorando il caso-Sardegna
Nell’Isola la Psa è stata eradicata e si aspetta il passaporto sanitario dalla Ue. Sarebbe una beffa se non arrivassePer restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
Roma s’è desta. Ma anche Milano, Torino, Bologna. L’Italia si sveglia con l’incubo della peste suina, maledizione che ha accompagnato la Sardegna negli ultimi cinquant’anni. Lo sanno bene i nostri allevatori e il nostro servizio veterinario, ma anche alcuni politici più attenti di altri. E lo sanno anche i consumatori isolani, anche se non necessariamente si sono posti il problema di consumare carni sarde, emiliane o polacche. Di sicuro l’emergenza della Sardegna deve essere passata inosservata per molti nostri connazionali se si dà credito all’allarme lanciato domenica da un importante quotidiano: la Psa rischia di pesare per 30 miliardi sull’export del Nord Italia. Il reportage ripropone il viaggio del virus, partito dal Kenya nel 1907 e approdato in Italia, si legge, nel 2022. C’è da domandarsi quale possa essere la fonte, considerato che la Sardegna (regione italiana, giusto?) ha registrato il primo focolaio di peste suina africana nel 1978, scatenando uno tsunami per l’economia agricola dell’Isola.
Principale veicolo del virus (che non si trasmette all’uomo) è la fauna selvatica, ovvero i cinghiali. Per decenni non abbiamo potuto esportare prosciutti e salsicce, ma nemmeno suinetti. Niente carni sarde per i nostri emigrati, per i ristoratori sardi nel mondo. Per partecipare alla grande vetrina dell’Expo di Milano, nel 2015, un imprenditore si è inventato il maialetto “termizzato”, confidando su una deroga eccezionale del ministero della Salute.
In Sardegna ci sono 14mila allevamenti, con una produzione media di 200mila capi all’anno. Tradotto: danni per miliardi di lire prima e decine di milioni di euro poi. Un flagello biblico fatto di abbattimenti e di ristori (sì, qualche mela marcia tra i nostri allevatori c’è stata e ci ha marciato) ma, soprattutto, fatto di frustrazione per tanta gente seria, che ha dovuto investire soldi e fatica per difendersi dal contatto con la fauna selvatica, tirando su recinzioni e barriere all’insegna della biosicurezza. In Sardegna l’ultima battaglia della guerra al virus è stata l’eliminazione del pascolo brado, con l’abbattimento, uno per uno, di tutti i capi potenziali untori. Lacrime e sangue, dolore e minacce, consensi e attentati. Questo evidentemente non è bastato ad accendere un faro nazionale sul caso-Sardegna, cancellata con un tratto di penna dalla mappa della Psa.
Ironia della sorte, oggi l’Isola è a un passo dall’ultimo bollino europeo che certifichi l’eradicazione da tutto il territorio regionale della peste suina africana. Ovvero, mentre altre regioni conoscono blocchi e abbattimenti, le nostre carni stanno per riottenere il passaporto. Incrociamo le dita.
Peste suina, agalassia, brucellosi, mucca pazza, blue tongue, scrapie, aviaria, febbre del Nilo. O, se preferite, passando dagli allevamenti ai campi e alle serre, peronospora, virus giallo del pomodoro, mal secco degli agrumi, psilla, ragno rosso o, pensando al patrimonio boschivo, lymantria dispar o phytophthora cinnamori. Non ci siamo fatti mancare nulla sotto il sole di Sardegna. Un’Isola che ha sempre tenuto spalancate le porte all'invasore di turno. E che ha dovuto combattere, negli ultimi decenni, battaglie titaniche contro pestilenze di importazione. Ma la guerra, la vera guerra da vincere, non si combatte a colpi di vaccini e di fitosanitari, ma mettendo in piedi un sistema efficace di controllo nei porti e negli aeroporti. E qui entra in gioco, o meglio dovrebbe farlo, la politica, incapace di difendere il valore aggiunto dell’insularità. Gli esempi abbondano, purtroppo, oltre alle piante e agli animali. L’Italia s’è desta sul fronte della Peste suina africana, quasi ignorando che ci siamo passati per quasi cinquant’anni. Succede troppo spesso.