Turisti di due secoli fa “a spasso” per Arzachena e dintorni
«Un viaggio più emozionale che scientifico», lo ha definito Mario Sotgiu, curatore della mostra “I temerari viaggiatori dell’800”Per restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
«Un viaggio più emozionale che scientifico», lo ha definito Mario Sotgiu, curatore della mostra “I temerari viaggiatori dell’800”, inaugurata ad Arzachena venerdì scorso e dedicata, ha affermato il presidente dell’associazione “La Scatola del Tempo”, «alla scoperta di coloro che nell’800, dimostrando un incredibile coraggio e non seguendo le aristocratiche mode del Gran Tour, hanno attraversato l’antica e ostile terra di Sardegna descrivendola e/o raccontandola in mille modi diversi, intimi e personali».
La mostra focalizza l’attenzione, in particolare, su quanto i viaggiatori di due secoli fa scrissero di Arzachena e delle zone circostanti.
Così si scopre ad esempio con l’inglese Daniel Roberts, che nel 1833, a Porto Cervo , fosse «presente una spiaggia rosa e sabbiosa, che ha una gran quantità di corallo sminuzzato». Roberts che, parlando del «Golfo di Arsaikena», lo descrisse essere «certamente il più bel posto che io finora abbia visto in Sardegna. Le lontane montagne, gli alberi, la forma curiosa di alcune rocce in lontananza. Il terreno nella valle ben coltivato, ci sono due sorgenti d’acqua eccellente, c’è una palude con anitre e altri uccelli acquatici. Trovai gli abitanti del luogo molto civili, mi diedero dell’ottimo burro e altre cose».
I viaggiatori dell'Ottocento parlarono anche delle feste, come Wiliam Henry Smith, ne “Relazioni sull’isola di Sardegna” nel 1822, che, dopo aver descritto la «cappella di Santa Maria», parlò della festa in corso, «regolata da una compagnia di 30-40 capi pastori. Una grande moltitudine di gente vi era accorsa da ogni parte: alcuni erano impegnati a uccidere e appendere ai rami degli alberi gli animali destinati al banchetto, altri avevano già iniziato ad arrostirli».
Thomas Forester nel 1858, descrive un «meraviglioso colle alberato con alberi in cima, dedicato a Santa Maria di Arzachena, uno dei santuari più venerati dai galluresi. A questi luoghi sacri, per le festività, la gente accorre numerosa; in tale occasione questi posti solitari, quasi sempre in cima ai colli e circondati da selvaggi romantici scenari, diventano testimoni di devozione e festeggiamenti, di cui la baldoria è la più evidente manifestazione».
Della festa scrisse anche Mary Davey in “Icnusa”, nel 1860: «Il nostro gruppo inglese fu accolto con festoso entusiasmo e invitato a sedere sotto un baldacchino di cappotti stesi da un ramo all’altro. Il grande piatto, per eccellenza, viene collocato sulla tavola. Consiste in un enorme cinghiale selvatico, all’interno della carcassa è stato posto un capretto, all’interno del capretto un maialino da latte, all’interno del maialino da latte una o due quaglie. L’intera massa viene arrostita in una buca nel terreno, ben foderata con rami di mirto e ricoperta sopra e sotto da braci di carbone. I sardi sono discreti buongustai. L’allegria è senza freni, il baccano è generale».
Meno idilliaco fu invece nel 1867 Emanuel Domenec, “In Pastori e banditi di Sardegna” che parlò sia del santuario di Luogosanto sia dei quello «non meno venerato del piccolo villaggio di Santa Maria d’Arsachena» dove i pellegrini danno vita «a danze accompagnate da canti e da musiche che ricordano i riti delle cerimonie religiose ebraiche e orientali. Ciò non impedisce ai pii pellegrini di ammazzare di tanto in tanto qualche carabiniere e altri soldati del re, venuti alla festa per tutelare l’ordine pubblico. Questa zona, in verità, non gode solamente di una natura romantica; infatti possiede una quantità davvero impressionante di banditi, pronti a mettere le loro mani sulle proprietà altrui e piantare il pugnale nel cuore sia di un nemico sia di un uomo che ritengono fastidioso».