Tenere i nervi saldi mentre si sprofonda nell'abisso è complicato ma necessario per sopravvivere. Chiuso in carcere da innocente «ho resistito con la certezza di non avere responsabilità. Sapevo sarebbe stata lunga ma non ho mai ceduto. La mia dignità non me lo permetteva». Regime stretto di isolamento («sulla cella non c'era il mio nome: solo due punti interrogativi. Ero così pericoloso...») e giornate che scorrevano lente: «Un anno, 10 mesi e 8 giorni», certi dettagli non si dimenticano. «Facevo il bagno al mare in estate e in inverno, chi avrebbe mai detto che sarei finito in una stanza di 4 metri per 2 senza disperarmi, con pochissima aria e luce elettrica accesa costantemente notte e giorno?»

L'avvocato Sergio Viana ha 79 anni. Ne aveva 39 quando è entrato nel penitenziario cagliaritano di Buoncammino con l'accusa di aver ucciso - così sostenevano pentiti rivelatisi inattendibili - il collega coetaneo Gianfranco Manuella. Lui autore materiale, il penalista Aldo Marongiu capo di sedicenti trafficanti di droga.

Una bufala durata due anni.

«Ho sopportato di tutto. La famiglia è stata fondamentale».

Ventidue mesi in cella da innocente. Come si resiste?

«Il partigiano e parlamentare comunista Giancarlo Pajetta, 12 anni da recluso, disse: in carcere ho vissuto, non sono sopravvissuto. Devi tirare fuori da solo le tue forze. Ecco, ho fatto questo».

Cosa ricorda dell'arresto?

«Quella sera ero fuori studio. Al mio rientro un uomo mi seguì nell'ascensore e all'interno dell'ufficio, dove mi attendevano altre due persone: tutti poliziotti. Mi comunicarono che il giudice istruttore Fernando Bova voleva parlarmi. Andammo a cercare Aldo a casa ma non c'era, poi ci dirigemmo in Questura. Dopo un'ora mi consegnarono il mandato di cattura».

Cosa le dissero?

«Nulla. Per me era una follia. Mi si accusava di omicidio, calunnia, traffico di droga, associazione a delinquere. Fui portato subito a Buoncammino, era notte. Nessun contatto con l'esterno. Nessuna notizia per due settimane. Dopo 15 giorni fui interrogato dal giudice: fu un confronto duro, era una cosa fuori dalla realtà. Dopo altri 10 giorni ebbi un colloquio brevissimo con mia moglie. Quotidiani? Cominciarono a darmeli dopo 4 mesi».

La vicenda era clamorosa, in carcere di certo se ne parlava e qualcosa le avranno detto.

«Qualche vicino di cella mi chiamava ma io non ho mai risposto. Per i primi 4 mesi ero in isolamento totale e non potevo incontrare nessuno. Andavo da solo all'aria in uno spazio ridottissimo, praticamente una cella a cielo aperto, per mezz'ora al giorno. Per tutto il periodo restante sono stato per mia scelta in isolamento volontario. In carcere devi fare l'apposita "domandina" per avere qualunque cosa. Non l'ho mai presentata perché così, rinunciando anche a ciò che dovevo avere, ero più forte di loro. Non ho mai avuto un fornelletto, abitualmente concesso ai detenuti per scaldare l'acqua o il cibo. Non ho mai bevuto caffè né ho chiesto di acquistare un sigaro. La sera mangiavo la verdura bollita che mi davano alle 11 di mattina. Nei primi sei mesi la cella non aveva un lavandino e l'unico rubinetto era sopra il water. Era una condizione terribile, ma in quell'anno e 10 mesi ho avuto una forza sovrumana che mai avevo avuto prima, niente mi poteva scalfire».

Perché i pentiti hanno accusato lei e i suoi colleghi?

«È la stessa cosa che chiedevano il giudice Bova e il pm Enrico Altieri. Ma non ero io a dover rispondere. Erano loro a dover trovare il motivo e dimostrare la nostra responsabilità. Marco Marrocu cambiava opinione ogni giorno, Sergio Piras ha fatto scavare mezza Isola alla ricerca del cadavere di Gianfranco Manuella. Era evidente che mentissero per interesse. Gli inquirenti hanno dato credito ad accuse prive di qualunque riscontro oggettivo e fino all'ultimo non hanno voluto riconoscere l'errore. Avrebbero dovuto ammetterlo».

Ha mai temuto che finisse male?

«Certo, per il lavoro che faccio sapevo che c'era questa possibilità. In carcere fui interrogato più volte ed ebbi un confronto con Piras, ma era tutto campato in aria. La lettura degli atti - avuti solo alla richiesta di rinvio a giudizio - mi diede tranquillità. C'era l'ampia prova della nostra innocenza».

Che rapporti aveva con Manuella?

«Lo conoscevo in quanto collega. Ci salutavamo: ciao, ciao. Nulla di più».

Secondo lei che fine ha fatto?

«Per me è morto. Mi sono fatto l'idea che sia inciampato in qualche segreto militare alla base di Decimo, dove era solito andare per fare acquisti allo spaccio. Quella pista investigativa era da seguire meglio, invece è stata abbandonata».

La reazione alla sentenza fu significativa: evidentemente ben pochi credevano alla vostra responsabilità.

«La città era convinta della nostra innocenza. Ero in gabbia, ci fu un'esplosione di gioia. Mio fratello corse ad abbracciarmi tra le sbarre. Piangeva, gli dissi di non farlo perché chi ci aveva trascinato in quella situazione non era degno delle nostre lacrime».

Desideri di rivalsa, di vendetta?

«Mai. È la mia fortuna: non provo odio. Sento invece un disprezzo enorme per chi mi ha inflitto tutto questo. Non dimentico niente».

Ha più avuto rapporti con loro?

«Mai più avuto rapporti, né parlato, con nessuno. E non intendo farlo. Penso sempre che Aldino sia morto qualche anno dopo la fine del processo, a 53 anni, per una leucemia probabilmente insorta durante la detenzione».

Andrea Manunza

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