In Sardegna cresce (molto) il numero di morti in pronto soccorso, anche se ci sono (molti) meno accessi. E sono sardi i pazienti che hanno dovuto aumentare, più degli altri della Penisola, le spese per curarsi in strutture private.   Le nuove generazioni di medici non lavorano sul campo, per l’indispensabile gavetta,  perché gli specializzandi vengono considerati eterni studenti. I medici di famiglia sono costretti a seguire gli abitanti di sei-sette paesi, e non ce la fanno.  E se si punta sulle “case della salute” per coprire la medicina territoriale, capita che vengano inaugurate anche tre volte. E non funzionano. 

Doveva essere un convegno organizzato anche con lo scopo di proporre soluzioni, quello organizzato  oggi a Cagliari da Cittadinanzattiva, al T-Hotel. Il titolo era:  “La sanità che esce dalla pandemia: criticità e prospettive future”. Le ipotesi di soluzione sono arrivate. Ma prima è emersa una marea di problemi, supportati da dati inequivocabili: tanti per ogni intervento di medici e infermieri che  si sono alternati al microfono.

Numeri inquietanti sono emersi dalla relazione di Giorgio Pia, promotore dell’iniziativa, per anni primario del pronto soccorso del Santissima Trinità. 

Le tabelle ufficiali dicono che il picco degli accessi nelle strutture di emergenza-urgenza di tutti gli ospedali dell’Isola è stato raggiunto nel 2019: erano stati 479.985. Nel biennio successivo lo stravolgimento del Covid. Poi il 2022, con il ritorno alla lenta normalità: si sono presentati 328.030 pazienti. Problema: nel 2019 i morti in pronto soccorso sono stati 601. Nell’anno appena concluso sono saliti a 866. Il 44% in più: un’enormità (nel 2020 i decessi dichiarati sono stati 630, scesi a 564 nei 12 mesi successivi). 

Le ragioni di questi numeri impazziti le fornisce lo stesso Pia: «L’età media di chi muore in pronto soccorso è alta. Quindi si tratta di pazienti anziani che per due anni, durante la pandemia, non sono stati curati e non hanno avuto assistenza diretta o indiretta». Quando arrivano in ospedale sono messi male.   E muoiono. Ma c’è un altro fattore: «In pronto soccorso l’assistenza è assicurata, ci lavorano ottime professionalità. Ma guardiamo ai numeri di questo pomeriggio: a Is Mirrionis c’erano 40 pazienti. Al Policlinico due in meno, con 4 rossi. Numeri altissimi. E organici e reparti quelli sono». Ed ecco il sovraffollamento, la difficoltà di gestione.

«Penso sia necessario rivedere la gestione dei codici del triage, per poter ridistribuire al meglio le attività del personale a disposizione». “Colori” assegnati alla criticità che devono passare da quattro a cinque. 

Sarebbe necessario, stando a quanto emerso dagli interventi, anche rafforzare la medicina territoriale, per evitare che tutti i malati finiscano in ospedale. Le slide illustrate da Francesco Enrichens dell’Agenas, già direttore sanitario dell’Ats in Sardegna, lasciano pensare che nell’isola si stia già facendo. Ma i medici in sala hanno storto il naso: nella realtà c’è una situazione più critica rispetto a quella rappresentata dalle diapositive. 

Un  fatto certificato da altri numeri, sempre ufficiali, illustrato da Emilio Montaldo, presidente dell’Ordine dei medici di Cagliari: il servizio sanitario nazionale vive un costante definanziamento. A crescere sono le somme che ogni sardo è costretto a spendere per curarsi nelle strutture private, perché il pubblico non garantisce il servizio: tra il 2020 e il 2021 sono aumentate del 27,9%. «L’incremento più alto d’Italia: succede nella regione che ha la provincia più povera del Paese», ha sottolineato Montaldo, «qui il cittadino è costretto a pagarsi di tasca le cure». 

(Unioneonline)

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