Gli indizi c'erano tutti. A partire dal fatto che, in quell'ospedale cagliaritano, ci è nato. Non metaforicamente: sua madre ha partorito lì. Inoltre è un sacerdote. E poi quell'ospedale si chiama "Santissima Trinità". Insomma, a chi altro potevano assegnare la funzione di cappellano (in realtà, il ruolo è "assistente religioso"), se non a lui? Don Elenio Abis, 39 anni, sacerdote da tredici, assiste tutti: medici, infermieri, operatori sociosanitari, tutte le figure che lavorano all'ospedale («con me fanno un percorso formativo e insieme costruiscono il benessere dei pazienti»), ricoverati e familiari. Lo fa con lo spirito e col corpo, nel senso che in quell'ospedale Covid - non si può varcare il cancello senza un serio motivo - è lui a consegnare telefonini, caricabatterie, biancheria e altro ai ricoverati per coronavirus. Padre, fratello, confessore, officiante di messe, dispensatore di unzioni. E postino. «Vedo la gente nascere, soffrire durante i ricoveri e morire». Riceve 60-70 telefonate al giorno da familiari di ricoverati: chiedono notizie, vengono personalmente a cercare conforto da don Elenio, ritornano i parenti dei deceduti, si fanno rivedere pazienti guariti e dimessi. Celebra la messa nei reparti («A Pasqua l'ho fatto agli Infettivi»), per Natale ha realizzato un grande presepe nel cortile, ha ricevuto già due volte l'arcivescovo Baturi.

Catena di lutti

Da quando c'è la pandemia, ne ha visti tanti andarsene senza poter nemmeno salutare i familiari: «È un colpo al cuore tutte le volte, ma chi crede non è mai solo. Gesù dice " sono con voi tutti i giorni, non abbiate paura " e io mi limito a replicare il modello». A lui spetta annunciare le notizie infauste ai familiari: «Racconto un percorso che non finisce, bensì continua verso il Signore». Mai una gioia? «Al contrario, tante».

Il carico di sofferenza

Stanco? A voler minimizzare, sì. «Il carico di sofferenza è enorme, vado dai pazienti Covid tutti i giorni, mi bardo sei o sette volte e mi metto accanto a ciascuno di loro». E cosa fa? «Le tre cose fondamentali: lo stare, cioè essere vicino con la mia presenza. Poi l'ascoltare, consentendo lo sfogo. Infine il consolare. Nessun paziente, nemmeno quelli che sostengono di essere lontano da Dio, mi rifiuta. Il cuore ci è stato donato per amare e i pazienti, che sono tali in quanto patiscono, lo aprono a me e, attraverso me, al Signore».

I pochi doni del Covid

Don Elenio riesce a dare soddisfazione anche nella sofferenza, e a darla a sé: «Un giovane paziente Covid mi ha detto di aver scoperto qui di non avere una vita spirituale. Il Covid uccide, ma fa anche doni». D'altra parte, l'aveva detto Papa Wojtyla: «Cercate un prete e chiedetegli di insegnarvi ad amare: così farete della vostra vita un capolavoro». Di unzioni di infermi, ne ha date tante: «Non è un sacramento per chi muore, ma una cura spirituale, una terapia dell'anima. L'anno scorso sono state 399, 102 delle quali a dicembre». Nel 2021 sono già 69. «Sono il parroco di una comunità non fissa: resta il personale, cambiano i pazienti. Certo, a fine giornata sono stanco, ma benedico, ringrazio, continuo ad affidare e prego, parlo con Dio. Mi chiedo perché tanti morti e lo chiedo a lui, ma so che ha un disegno e recito il salmo 13: Fino a quando, Signore? .

Le storie atroci

Umanamente, le storie personali colpiscono don Elenio: «Quelle ad esempio di due miei ex parrocchiani, lui 55 anni e lei 53, morti qui di Covid in tre giorni lasciando da solo l'unico figlio di 23 anni. Oppure dell'uomo ricoverato dopo il funerale della moglie, uccisa dal Covid: dopo tre giorni è morto anche lui. Il cuore si stringe, viene da piangere: solo fede e speranza ci tengono lucidi». Paura di contagiarsi? Don Elenio non la conosce: «Seguo tutti i protocolli e no, non ho paura: non in quanto sarei un raccomandato da Dio, ma perché se accadrà significa che era il suo disegno, che non posso capire. Ma ora vado: devo consegnare a un paziente Covid queste magliette portate dal figlio».

Luigi Almiento

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