Quando nel 1992 è pubblicato "La fine della storia e l'ultimo uomo" di Francis Fukuyama, professore americano di economia politica, o meglio quando il libro diviene di dominio pubblico e penetra profondamente nella cultura e nella psicologia degli studiosi di tutto il mondo (grazie anche all'impatto del titolo, hollywoodiano più che scientifico), un enorme sospiro sembra attraversare non solamente le aule e gli ambienti accademici, ma anche la trasversalità degli scranni politici.

Si potrebbe dire, col senno di poi, che un'intelligente provocazione, imbevuta pariteticamente di superficialità americana e di apocalittico spirito giapponese (l'autore non tradisce le sue origini), viene invece presa sul serio dai lettori sino ad assurgere a obiettivo strategico di ordine economico, sociale e persino filosofico.

Potenza della semplificazione: in fondo Fukuyama non fa che prendere atto di alcuni macro-trend (l'evoluzione delle democrazie liberali e del capitalismo del libero mercato, fenomeni prettamente occidentali) e indicare un possibile punto di convergenza in una forma di umano governo che inglobi questi trend portandoli a sintesi.

Non uso la sua definizione "final form" perché l'aggettivo "finale" rimanda sempre a brutti ricordi, ma, insomma, Fukuyama indica in questa modalità il vertice dello sviluppo socio-economico e culturale in atto, pertanto lo strumento migliore per risolvere i problemi del pianeta, e dunque, per lui, è la fine della storia.

Riletto oggi, dopo ventisei anni, il saggio appare un buono spunto di discussione, niente di finemente strutturato, o profondo, o innovativo. Eppure, la teoria di Fukuyama deve aver colpito qualche bisogno occulto, io penso sempre di pericolosa semplificazione, di scorciatoia, se dal libro si sono poi dipanati tentacoli lunghissimi che ancora oggi confondono e fanno danno.

In particolare, tre ideologie hanno trovato linfa esplosiva nelle sue pagine: la globalizzazione, considerata come panacea universale; il neo-liberismo, ovvero lo stato brado della finanza non sottoposta a vincoli se non quelli di una auspicata autoregolamentazione; un governo transnazionale, da definirsi nei termini, ma visto come superamento dei nazionalismi e della retorica identitaria ed etnica.

Il sospiro di stupore e di soddisfazione per l'uscita del libro di Fukuyama ha purtroppo segnato l'inizio di una corrente di pensiero via via condivisa, di utopia estrema, che i mass media contribuiscono ancora a trasportare e impollinare. Nell'ultimo quarto di secolo, infatti, l'affermarsi di queste ideologie si è accompagnato alla rivelazione traumatica delle loro intrinseche debolezze.

La globalizzazione, disgiunta da principi di reciprocità e difesa, non ha fatto che penalizzare le aree deboli. Nel caso della Sardegna, ad esempio, le penalizzazioni di cui soffriamo in termini di formazione, movimento, salute, internazionalizzazione, eccetera, dovrebbero essere gestite con strumenti ad hoc (una zona franca, in primis) e non lasciate semplicemente a se stesse, al sogno di una globalizzazione armonica ma in realtà dettata da interessi e attacchi esterni.

Il neo-liberismo ha portato alla messa a punto di un Eliseo, un ambiente controllato riservato a una stretta élite di privilegiati, aumentando a dismisura la distanza dei ricchi e dei super ricchi verso i disagiati, i deboli, i poveri. L'unico governo transnazionale nato (se possibile chiamarlo in questo modo), l'Europa, sta mostrando tutti i suoi limiti di giustizia, anche sociale; sta favorendo le nazioni forti; sta alimentando l'insorgenza di nazionalismi, di populismi e di movimenti esclusivi e non inclusivi. In venticinque anni nessun problema è stato risolto, il pianeta non è migliorato. È diventato invece più complicato, ingiusto e pericoloso, e ci s'interroga se le utopie dette (e insieme a esse le élite) abbiano solamente fallito o siano proprio la causa del problema.

La soluzione più ragionevole, di riduzione e non di esaltazione del divario tra ricchi e poveri, quindi una strada economica, sociale ed etica, non finanziaria, non ha ancora sostenitori (la cosiddetta sinistra, naturale deputata, si è richiusa e isolata nell'Eliseo) e sarà lunga, combattuta e incerta. Non c'è dunque una fine della storia, mi spiace: il paradiso in terra non esiste.

Ciriaco Offeddu

(Manager e scrittore)
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