A sei anni saltava sulle sedie per arringare famiglia e parenti vari: ore e ore a sdottorare, illustrare, esigere. Sua zia (medico) lo voleva chirurgo, suo zio (dantista) presagiva invece un futuro in cattedra: professore. E professore Gigi Concas lo è diventato sul serio ma di tutt'altro genere. Dalle sedie di cucina alle aule di tribunale è stata tutta una marcia obbligata e trionfale, la risposta a una chiamata che l'ha colto in età pediatrica.

Nato a Pola (e per questo cagliaritano senza inflessione) settantantanove anni fa, si è laureato in Giurisprudenza giovanissimo. E di lì ha preso il volo. Per capire cos'è diventato, due o tre dettagli: a palazzo di Giustizia dà del tu ai suoi colleghi che gli rispondono (fatta eccezione dei più anziani) dandogli del lei; negli scontri in aula, i pubblici ministeri fanno estrema attenzione a maneggiarlo con cura. Perché ogni tanto il Professore, fumantino come pochi, esplode. E quando esplode ce n'è per tutti. L'ultimo col quale ha litigato furiosamente è il pm Mario Marchetti, magistrato che stima e col quale vanta un'amicizia fraterna. «Il fatto è che quando faccio l'avvocato, faccio l'avvocato e basta». Fortuna che dopo, a eruzione finita, non restano ceneri del rancore.

Tre figli (due fanno il suo stesso mestiere), ha attraversato le cronache giudiziarie della Sardegna. Gli rinfacciano un eccesso di vanità ma nessuno può negare che sia un protagonista assoluto. Preparazione solidissima, tant'è che l'hanno chiamato a tenere conferenze perfino negli Stati Uniti. Nei processi più importanti degli ultimi cinquant'anni ha avuto puntualmente un ruolo. Un garbato mastino della giustizia, garbato poi neanche tanto. Adesso che comincia a tirare i remi in barca prospettando l'ipotesi di andare in pensione a piccole dosi, è inseguito dai fantasmi di una vita. Fosse un pugile, la sintesi della sua carriera è questa: ha vinto l'80 per cento delle volte, perso quindici, pareggiato cinque.

Impossibile guardarlo con indifferenza: Gigi Concas è un primo della classe e non fa nulla per nasconderlo. Non fosse davvero un grande penalista, lo avrebbero triturato da un pezzo.

La madre di un imputato celebre (Baingio Piras) lo ha nominato erede universale. Il Professore ha provato inutilmente a rifiutare poi ha girato tutto alle comunità di padre Salvatore Morittu. Che altro dire? Gli hanno offerto la presidenza del Cagliari-calcio, proposto una candidatura blindata e sicura targata Silvio Berlusconi, lastricato la via dei consigli di amministrazione che contano. Ha sempre detto no. Modestia? Semmai intelligenza, capacità di vedere il confine tra decenza e inutile baloccamento.

Gigi Concas ha insegnato diritto penale all'Università. Confessa d'essere stato un «prof tendenzialmente carogna» ma, anche se nessuno ci crede, le carogne hanno un cuore. Una volta (episodio ormai arcinoto) s'è accorto che stava interrogando uno studente al limite del malore: fame arretrata. «A quel punto ho detto al bidello di portarlo a pranzo a mie spese. Esame rinviato con successo al giorno dopo». Quello studente è oggi un «validissimo magistrato di Cagliari. Non ha mai dimenticato».

Nei Tribunali sta scritto La legge è uguale per tutti. Ci crede?

«Neanche un po'. Solo di recente si stanno colpendo i colletti bianchi, le pene più severe riguardano sempre i disgraziati. A parte questo, la legge non è affatto uguale per tutti anche perché basta sbagliare avvocato e ti rovini».

Falso il luogo comune che un avvocato vale l'altro?

«Falsissimo. Un buon legale ti può salvare, un cane mai».

È per questo che in galera ci vanno soprattutto i poveri?

«Certo. Quando si è molto impegnati, assistere i non abbienti diventa un lusso. Lusso che io mi sono potuto permettere raramente».

Qual è il livello medio dei penalisti cagliaritani?

«Diamo numeri all'ingrosso: 70 per cento sembra fare la professione per caso, un 20 per cento se la cava. Gli altri sono proprio bravi».

Quanti, secondo lei, i cosiddetti principi del Foro?

«Mi bastano le dita di una mano per contarli. C'è, questo sì, qualche giovane promettente».

Chissà dove arrivano le parcelle dei fuoriclasse.

«Io ho aumentato le mie dopo aver visto le loro. Spaventose».

Pare che per difendere un imputato di omicidio l'onorario abbia sfiorato i 250 mila euro.

«Non ho mai chiesto una cifra così alta. La ritengo addirittura indecente. Una rapina».

Quali debbono essere i requisiti del buon avvocato?

«Costante aggiornamento. E poi leggere sempre con cura le motivazioni, non solo le massime, delle sentenze della Cassazione, capire il perché di certe decisioni. Non ci si può accontentare di una sbirciatina».

Mai andato a letto col dubbio d'aver fatto assolvere un assassino?

«Come no, mi è capitato alcune volte».

Reazioni, conseguenze?

«L'uomo si tormenta, l'avvocato no. L'avvocato si congratula con se stesso per il risultato, l'uomo riconosce l'iniquità che caratterizza l'amministrazione della giustizia».

E magari si indigna.

«No, perché non spetta all'avvocato assolvere o condannare. Durante il processo per il sequestro Schild ho tirato fuori dai guai uno della banda. Avevo trovato una gabola che poteva salvarlo. Eppure sono sicuro che fosse colpevole: l'ostaggio lo aveva riconosciuto, si capiva da come lo guardava».

Confessioni tardive?

«Un pastore accusato di aver assassinato il vicino di pascolo ha ascoltato ipnotizzato la mia arringa, esultato per il verdetto che lo mandava assolto e poi, mentre usciva dall'aula, mi ha sussurrato: o s'abbogau, seu stetiu deu ».

Quanto vale in Sardegna la vita di un uomo?

«Faida di Noragugume, intercettazione telefonica tra due mandanti di un omicidio. Mandante A: ci ha fatto il lavoro e non gli abbiamo dato nulla. Mandante B: tranquillo, domenica vado a trovarlo e gli porto un maialetto».

La parola orrore esiste per chi fa una professione come la sua?

«Ricordo un tale, era uno dei miei primissimi processi (avevo 25 anni), che s'era sfinito a massacrare una ragazza che l'aveva respinto. Picconate su picconate senza pietà. Per due giorni, insieme a un valente psichiatra, abbiamo giocato la carta dell'infermità mentale. Per fortuna ci è andata male: trent'anni di reclusione».

Gigi Concas non accetta qualunque cliente: notorietà e autorevolezza gli permettono di scegliere. Quando si porta il lavoro a casa (un undicesimo piano che da Stampace incornicia il quartiere di Castello), spulcia i fascicoli in un'elegantissima prigione: uno studiolo di pochi metri quadri stracolmo di quadri, oggetti d'antiquariato, ninnoli orientali e altre rarità. Al piano di sopra, in un salone che pare sospeso sul cielo, c'è il resto di quello che sembra un appartamento-museo, il simbolo più evidente e gridato del successo. Il Professore dà quasi l'impressione d'essere fuori posto tra quelle pareti: parlare del suo lavoro finisce per trascinarlo in un vortice da cui fatica a uscire, tutto il resto non conta. Soltanto in volata accenna d'aver fatto il partigiano e non dimentica di dire che ha nostalgia del Partito d'Azione. «La legalità non si fa andando in giro tenendo bene in mostra la Costituzione. Si fa e si pratica rispettandola ogni giorno, la Costituzione».

Ce l'ha coi magistrati?

«Non sono solo gli avvocati a cercare un risultato purché sia. Che dire di quei magistrati che inseguono un teorema infischiandosene di un innocente che verrà sicuramente condannato?»

Lodo Alfano: che ne pensa?

«Male. Ritengo ingiusta ogni legge che non rispetti il principio di uguaglianza tra i cittadini. Col Lodo Alfano certi cittadini diventano più uguali degli altri. Inaccettabile».

Si dice che coi giudici litigate in aula ma poi siete pappa e ciccia.

«Pappa e ciccia è un'espressione impropria. Anzi, sbagliata. Il conflitto processuale esiste ma finisce, deve finire, appena fuori dall'aula. Durante il dibattimento invece non bisogna guardare in faccia nessuno: nel corso di un'udienza mi è capitato di aggredire mio fratello, che era lì in veste di testimone».

Clienti bugiardi.

«Premessa: di solito il cliente non racconta la verità al suo legale, si limita a difendersi. Basta porre comunque qualche domanda imbarazzante e si capisce subito se hai davanti un mentitore. In questi casi, dico a tutti la stessa cosa: queste balle le racconti al processo, non a me».

Clienti ricusati.

«Direi cacciati, anche in malo modo. Uno, ex editore di giornali, aveva la pessima abitudine di interrompere, prendere all'improvviso la parola durante i processi che lo riguardavano. Alla prossima si cerchi un altro difensore, l'ho avvertito».

Com'è finita?

«L'ho lasciato in un'aula del Tribunale di Palermo lanciatissimo in un monologo non autorizzato. Io, infilate le mie carte in borsa, me ne sono andato».

Clienti suicidi.

«Non mi perdonerò mai d'aver lasciato solo il giudice Luigi Lombardini dopo che i pm di Palermo lo avevano interrogato per l'inchiesta sul sequestro di Silvia Melis. Ho dovuto allontanarmi un attimo e quelli hanno deciso proprio in quel momento, proprio in quell'istante, di perquisire il suo ufficio».

Magari le cose sarebbero andate nello stesso modo.

«Non credo. Luigi aveva una personalità fragile. La richiesta di perquisizione l'ha sconvolto. Quando sono rientrato a Palazzo si era appena ucciso con un colpo di pistola in bocca».

Come si fa a difendere un maiale reo confesso?

«Bisogna prima leggere gli atti con molta attenzione, poi si decide. Ho rifiutato di difendere un uomo accusato di violenza sessuale su un minore. Non bisogna tuttavia generalizzare».

Cioè?

«Ricordate il caso dell'orologiaio accusato di stupro nei confronti della sua bambina e del figlio down? Leggevo e rileggevo gli atti perché sentivo che qualcosa non tornava. Alla fine ho trovato quello che cercavo. L'orologiaio è stato assolto fino alla Cassazione».

Esiste la pietà per gli avvocati?

«Rispondo con un caso di cui mi sono occupato. Ragazza spara contro l'ex fidanzato, la pistola s'inceppa e il tizio si salva. Contro qualunque evidenza, sono riuscito a fare condannare l'imputata per lesioni e non per tentato omicidio. Una sentenza clamorosa, giuridicamente scorretta, umanamente giusta. E guarnita dall'amore».

Dall'amore di chi?

«Dei due. Che si sono rimessi insieme e hanno tirato su famiglia. Ho fatto da padrino al battesimo del loro primo bambino».

Le sarebbe piaciuto difendere Andreotti?

«No, avrei preferito Enzo Tortora. Quanto ad Andreotti ci si dimentica sempre di dire che il genio della lampada, ovvero dell'assoluzione, non è affatto l'avvocato Bongiorno ma il capo del suo studio legale, il professor Franco Coppi. Vero fuoriclasse».

Non le piacciono nemmeno gli avvocati one-man-show.

«Quando diventi un prezzemolo, nel senso che ti trasferisci dal tuo studio professionale a quelli televisivi, paghi un prezzo altissimo. Guardate che fine ha fatto l'avvocato Taormina: dopo quel bagno di sangue che è stato l'omicidio di Cogne, è scomparso, sparito. Taormina, metaforicamente parlando, è uno che si è fatto fuori con le sue mani».

E dunque?

«Di giustizia si può morire, senza sapere da dove è partita la pallottola».

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