La storia.

«Avevo il destino segnato: poi mi sono aggrappato alla vita» 

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La prima diagnosi a 16 anni. Impietosa. “Cardiomiopatia ipertrofica”, sentenziarono gli specialisti del Brotzu. Una malattia genetica che causa un ispessimento anomalo delle pareti del cuore, rendendo difficile il pompaggio del sangue, con rischio di morte improvvisa. Daniele Pateri, fotografo e scrittore oggi 46enne, conosceva bene quel nome. Nella sua famiglia era già noto. Quella stessa patologia gli porterà via prima il padre, a soli 55 anni, e poi una sorella, poco più che trentenne. Il destino sembrava segnato.

Un anno di vita. Era il 2013 quando una mattina, mentre era a casa, sentì una fitta improvvisa al petto. «Come una freccia invisibile che mi trapassava», racconta. Era il suo cuore che stava cedendo. «Avevo 34 anni, venni ricoverato. I medici in seguito mi dissero che avrei potuto resistere al massimo un anno e mi inserirono in lista per il trapianto. Ero già fidanzato con la mia Marta e avevamo un figlio». Sembrava finita. «Ero magrissimo, pesavo 40 chili, tuttavia con mia moglie decidemmo di non arrenderci. Ci aggrappammo alla vita e ci sposammo nella cappella dell’ospedale, dov’ero ricoverato ormai da tanto: era il 15 marzo 2014. Ero in sedia a rotelle, ricordo le corsie addobbate, i palloncini, le scritte “oggi sposi” e il grazioso buffet allestito per noi da medici e infermieri».

Due mesi più tardi il trasferimento a Milano, all’ospedale Niguarda. «La sera del 4 settembre nella mia stanza il via vai era continuo. Capì subito che era arrivato il cuore giusto». E così fu. Da allora sono passati 11 anni e Daniele, che oggi sta bene, ha deciso di raccontare la sua storia in un libro commovente: “La stanza della speranza”. Un viaggio di fede e coraggio, un invito a non perdere mai la voglia di vivere e a crederci sempre. «Il mio è il racconto di un cuore che ha conosciuto il limite estremo e ha trovato nuova linfa grazie a un dono silenzioso e immenso». In copertina una farfalla e la mano di un bimbo. «La farfalla rappresenta l’anima di mia sorella Roberta, il mio angelo. La mano ricorda l’impronta che mio figlio lasciò sul vetro della mia stanza d’ospedale il giorno che finalmente lo rividi dopo molti mesi». Un messaggio potente per chi soffre. «Per chi non smette di credere ai miracoli nascosti dentro di noi».

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