D al punto di vista del linguaggio giornalistico, la sfida fra Alessandra Zedda e Massimo Zedda comporta un vantaggio e un problema. Il vantaggio sta nel fatto che hanno un cognome breve e quindi facile da adoperare, perché nello spazio striminzito di un titolo di giornale “Zedda” può convivere comodamente con un verbo e un complemento. Nomi lunghi come Napolitano e Cappellacci, per dire, possono viaggiare giusto insieme a una preposizione, tipo bagaglio a mano, o comunque costringono i titolisti a ellissi trafelate e banali (“Ok di Cappellacci”, “Napolitano bis”). L’omonimia invece pone un problema. Noi giornalisti ci stavamo quasi tutti abituando a non usare più l’articolo determinativo per le donne, finora trattate alla stregua di sostantivi (la sedia, la Bonino, la Carfagna, la lavagna) per indicarle asciuttamente con il cognome al pari degli uomini (Schlein, Renzi, Meloni, Salvini) ma adesso per distinguere la candidata e il candidato si rischia di tornare rapidamente indietro, così che una può ridiventare “la Zedda” mentre l’altro rimane “Zedda”. Nel più paritario dei mondi la risolverebbero facendoli diventare rispettivamente “la Zedda” e “lo Zedda”. Nel più razionale e svizzero, “Zedda A” e “Zedda M”. Nel più cagliaritano-inciucione, “Ale” e “Massi”. Che in un titolo farebbero risparmiare ancora più spazio, fra l’altro.

© Riproduzione riservata