M olti anni fa una mia amica mi chiese di aiutare la figlia a studiare il canto XXVI della Divina Commedia, incentrato su Ulisse, ingannatore e per questo collocato da Dante nel girone dei consiglieri fraudolenti dell'Inferno. Mi assalì il panico, temendo di non ricordare alcunché dei miei studi al Liceo Classico "Azuni" di Sassari ("l'istituto principe", lo definiva il preside Mezzacapo, che pareva appena venuto fuori dal Ventennio). Leggendo quei versi immortali, però, da qualche angolo della mente emerse tutto: parafrasi, interpretazione, sfumature. Insomma, feci un figurone. E ringraziai idealmente i miei professori che, per la verità, al tempo mi stavano sulle scatole perché espressione di un establishment che noi ribelli volevamo rovesciare. Ho capito l'importanza degli insegnanti nel trasmetterti non solo le nozioni ma anche gli strumenti per capire la cultura, la politica, il mondo. Poi ieri ho visto in tv un servizio sui docenti precari di Aversa (Caserta) che prendono il treno delle 5,30 del mattino per recarsi a Roma, non potendo permettersi di vivere nella Capitale. Ogni giorno (una lo faceva da 15 anni) si svegliano alle 4,30, si sciroppano un'ora e 50 minuti di treno, per tornare a casa alle 5 del pomeriggio. E ho capito che degli insegnanti lo Stato italiano se ne frega.

IVAN PAONE
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