Obiettivo primario del nuovo presidente del Consiglio dei Ministri Mario Draghi sembra essere, quanto meno negli intenti, e secondo quanto dichiarato, quello di imprimere una accelerazione decisa e decisiva nella risposta sanitaria europea al Covid-19, soprattutto in relazione a una campagna vaccinale fino ad oggi condotta in maniera piuttosto deludente. “Cooperazione sulla produzione e consegna del vaccino” ha tuonato, invece, Ursula Von der Leyen, ma solo a posteriori, e dall’alto del suo ruolo istituzionale, per far fronte energicamente alle inadempienze delle Big Pharma.

Al di là delle esternazioni di puro e semplice effetto mediatico, quanto accaduto negli ultimi tempi ha dell’incredibile. Eppure non è trascorso troppo tempo da quando Pascal Canfin, presidente della Commissione per l’Ambiente e la Sanità, aveva sostenuto fieramente che “il nuovo programma sanitario UE ci (avrebbe) consenti (to) di sostenere i nostri ospedali, di avere i prodotti medicali necessari e soprattutto di sostenere il nostro personale sanitario che è stato in prima linea nella battaglia degli ultimi mesi”. Chi avrebbe mai potuto pensare che sarebbe stata solo una ottimistica espressione verbale di circostanza dolorosamente vuota di contenuto pratico. I negoziati con le case farmaceutiche diretti ad assicurare a tutti i cittadini europei la somministrazione del vaccino sono stati un autentico “flop” siccome svincolati da ogni doveroso principio di trasparenza, e non solo, sul “programma” cosiddetto di “acquisto” considerato in tutti i suoi molteplici aspetti. Forse, e nonostante la discutibile posizione di forza assunta da ultimo da Mario Draghi, il quale ha bloccato l’export in Australia di 250mila dosi di AstraZeneca prodotte nello stabilimento italiano di Anagni, non resta che arrenderci di fronte a quelle che restano delle amare evidenze: la persistente mancanza di una politica comune europea in ambito sanitario non solo continua ad alimentare situazioni di gravissima disomogeneità locale relativamente alla disponibilità di meccanismi di efficienza in ordine alla tutela della salute, ma continua, altresì, anche ad evidenziare la necessità di adottare correttivi strumentali all’ottenimento di livelli accettabili di dinamismo e rendimento tecnico; la condizione di grave e inaccettabile “minorità” strutturale, strumentale e organizzativa della nostra Vecchia e (per molti non più) cara Europa, e delle sue Istituzioni più rappresentative, rispetto ai Paesi terzi in materia di approvvigionamento di farmaci, ha contribuito a determinare la conseguente, e inevitabilmente connessa, perdita di indipendenza e autonomia sul piano sanitario generale; la pandemia, è riuscita a mettere a nudo le inconcludenze e le negligenze del sistema economico nel far fronte ai bisogni fondamentali della comunità sociale complessivamente considerata e dei singoli individui che la compongono.

Eppure, la logica, prima ancora del buon senso, avrebbe dovuto imporre di offrire la massima priorità al sostegno e al finanziamento della produzione farmaceutica locale, quanto meno per i medicinali di strategico interesse terapeutico. È altrettanto vero, e non lo nego, che col senno del poi tutto si può dire, ma, all’esito di ogni possibile e verosimile riflessione, è innegabile che abbiamo bisogno di una base solida da cui ripartire e che ci consenta non solo di rispondere con un accettabile livello di funzionalità e vigore alla situazione emergenziale corrente, ma anche di procedere a una compiuta pianificazione futura.

La crisi sanitaria che ci ha attraversato, e che a tutt’oggi ci attraversa con sempre maggiore intensità, ci consegna un insegnamento fondamentale sul piano esistenziale che non può non tradursi e non declinarsi, nell’immediato presente come nel prossimo futuro, sul piano naturalistico: la “salute pubblica” oltre ad essere un diritto e un valore fondamentale da tutelare e garantire, rappresenta anche, e saremo tentati di dire soprattutto, un coefficiente cruciale per lo sviluppo e il benessere dei cittadini europei, e più in generale per la salvaguardia sociale e la solidità in tutto il territorio dell’Unione. L’incentivazione del postulato di “buona salute”, al di là degli egoismi e dei rigurgiti nazionalisti di taluni Paesi Membri, avrebbe dovuto rivestire un ruolo determinante e risolutivo nell’agenda europea, trattandosi di un presupposto necessario e sufficiente della crescita economica considerata l’influenza che ha dimostrato di poter imprimere non solo sul piano della produttività, ma anche sul piano dell’intero sistema economico nella sua dimensione umana e strumentale. Ma quale impostazione, quale via, i singoli Stati Membri avrebbero dovuto perseguire, e dovrebbero ad oggi perseguire, se proprio l’Unione ha “fallito” in quella che era, e continua ad essere, la sua azione di indirizzo e supporto alle politiche sanitarie nazionali e di coordinamento contestuale delle medesime con le ulteriori priorità gestionali? Se è vero, come è vero, che la pandemia ha evidenziato il valore imprescindibile della centralità delle Istituzioni nel gestire i bisogni dei consociati, allora appare oltremodo doveroso che coloro che incarnano quelle stesse Istituzioni, e che ne sono espressione tangibile, si adoperino nel contrastare questa che è oramai divenuta una crisi di sistema, un blocco endemico del circuito economico e del mercato che rischia seriamente di compromettere il futuro dell’umanità intera. Quelle Istituzioni, che negli ultimi tempi si sono sempre più qualificate nell’apparire come entità astratte, dovrebbero innanzitutto impegnarsi fattivamente per impedire ogni tentativo e/o tentazione di affermare, e di conseguenza legittimare, un articolato processo di “nazionalismo vaccinale”, giacché la competizione tra Stati, anche al di là di ogni valutazione etica, finirebbe per favorire i soli Paesi ricchi in pregiudizio di quelli più poveri e svantaggiati i quali, per converso, e quasi per contrappasso, continuerebbero non solo a patire gli effetti della patologia, ma anche a fungere da bacino di ulteriori e incontrollabili mutazioni della stessa.

Il fenomeno pandemico è, per definizione, diffuso su scala mondiale, e in quanto tale, i singoli Stati, nazionalisticamente intesi, possono sperare di contrastarlo solo attraverso un coordinamento solidaristico di carattere internazionale. Ogni azione singolarmente, egoisticamente e autonomamente intrapresa per rispondere all’ultimatum del “si salvi chi può”, rischia di compromettere quella capacità di coordinamento e di cooperazione con ogni conseguenza sul piano del pregiudizio collettivo e, come se non bastasse, rappresenta una manifestazione espressa di incapacità gestionale nel far fronte al problema.

Giuseppina Di Salvatore

(avvocato - Nuoro)
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