Quando Gaetano Semenza, ardito imprenditore lombardo, bussa al portone d'ingresso dello studio del notaio di Londra William Webb Wenn Junior ha le idee chiare e le carte in regola. È il 2 giugno del lontano 1863, centocinquantasette anni fa. Nelle carte da vergare con tanto di sigillo notarile ci sono gli atti costitutivi della Compagnia Regia delle strade ferrate in Sardegna, con tanto di convenzione già legge dello Stato. Con lui un manipolo di finanzieri della city londinese. Non hanno idea del progetto, delle infinite e tortuose vicende che li attendono, sanno solo che in cambio di quegli investimenti avranno terreni su cui coltivare quel cotone venuto meno dopo la guerra di secessione americana. A questo si aggiunge il grande business legato all'innata propensione anglosassone alla costruzione delle materie prime per l'intrapresa, binari, locomotive, vagoni di cui l'Inghilterra è la più rilevante produttrice. Il progetto è ambizioso: la costruzione di una linea ferroviaria da Cagliari ai due porti del nord dell'Isola, Terranova Pausania e Porto Torres. L'utopistica missione ferroviaria appare ardua e in salita, come il tracciato che dal cuore dell'Isola deve scalare le montagne per ricongiungere i binari con il declivio verso il mare. Gli investitori, guidati dal pioniere Gaetano Semenza, che dell'intrapresa è il rappresentante legale, mettono nero su bianco le condizioni per attraversare la terra dei Nuraghi con tanto di binari da nord a sud dell'Isola.

Terre & binari

La contropartita è tutta in terreni. Ne chiedono 200 mila ettari, terre gravate da un istituto giuridico ereditato dagli spagnoli, una sorta di gravame civico. Per cancellarlo serve l'intervento dello Stato, che ci pensa bene prima di spendere propri soldi per una costruzione ferroviaria da realizzare nella sperduta Sardegna. È così che i ministri Depretis, Sella e Pepoli, poco prima della costituzione della Compagnia delle strade ferrate sarde, cedono 200.000 ettari di terreni "ademprivili" allo scopo di costruire ed esercire ferrovie nell'Isola di Sardegna.

La convenzione non ammetteva dubbi e ritardi. Una distesa infinita di terre in cambio della costruzione di 400 chilometri di strade ferrate da completare, con scadenze contrattualizzate. Entro il primo febbraio 1865 dovevano essere collegate Cagliari con Iglesias, e Cagliari con Oristano entro il primo giorno di giugno dello stesso anno. Per l'anno successivo, il 1866, si prevedeva la consegna delle tratte tra Sassari e Porto Torres, il primo febbraio e la Ozieri-Terranova Pausania il primo di luglio. Altre linee sarebbero state consegnate entro i sei anni. Il governo avrebbe pagato novemila lire per chilometro di linea, oltre la cessione di 200 mila ettari di terreni da pascolo. Il 4 gennaio del 1863 la convenzione diventa legge dello Stato. I tempi non furono rispettati ma il primo maggio del 1871 i treni solcarono gli arditi binari sardi. Primi giri di ferro da Cagliari a San Gavino, il 9 aprile del 1872 si inaugura la tratta da Sassari a Porto Torres.

Dal Sole alla crisi

In nove anni erano stati realizzati ben 200 km di strade ferrate. Gli affari andavano bene, tanto che Semenza fonda "Il Sole", il quotidiano economico e finanziario precursore dell'attuale Sole 24 ore, con l'ambizione di favorire l'intrapresa privata. La politica, le divisioni, i contrasti su dove far passare le altre linee fanno saltare il banco. Sino all'intervento risolutivo di un esperto ingegnere ferroviario inglese come Benjamin Piercy, bolotanese d'adozione, che mette a segno l'opera. Negli appunti progettuali, però, non mancano i rilievi tecnici. I raggi di curvatura dei binari troppo stretti, i dislivelli del tracciato eccessivi, l'esigenza di risparmiare soldi ed evitare la realizzazione di gallerie. Sotto accusa c'è il tratto da Oristano in su, da Bauladu a Macomer, da Bonorva a Torralba. Ieri come oggi. È il 1870 quando i progettisti dell'opera ferroviaria mettono nero su bianco le difficoltà del tratto centro-nord. Il primo percorso su rotaie è, però, concluso. Sono gli anni Venti quando nel resto d'Italia si pensa già all'elettrificazione delle reti ferroviarie. Ovviamente non in Sardegna.

Lo scarto nell'Isola

Dopo l'elettrificazione della rete Tirrenica le locomotive di Salerno arrivano a Cagliari. La motrice "744.003", altezzosa come un tempo, ora è piazzata nel cuore della deserta stazione della capitale dell'Isola. Un monumento ai 75/80 km all'ora. Quelli che ancora si è costretti a subire in quelle strade ferrate sulle quali nessuno, dai tempi di Piercy, vuole realmente metter mano. E per scoprire che la Sardegna è condannata ad un'atavica arretratezza basta scorgere il decreto che il ministro per l'Ambiente sta per firmare sulle modifiche al tracciato che da San Gavino a Sassari e Olbia puntavano a velocizzare l'impervia rete sarda. I tempi della politica e della burocrazia sono il primo grande scandalo di questa vicenda. Il Cipe, il Comitato interministeriale per la programmazione economica, la vera borsa dei denari di Stato, il 29 settembre del 2002 dispone sette interventi prioritari per il Mezzogiorno, uno di questo è la velocizzazione del tratto San Gavino-Sassari-Olbia. Diciotto anni dopo i progetti per quelle varianti approdano alla Commissione di valutazione d'impatto ambientale. Anziché 5 ne arrivano all'esame del parlamentino ambientale solo due, la variante di Bonorva-Torralba e quella di Bauladu. Tagliate fuori quella di Macomer 1 e Macomer 2, esclusa anche quella di Campomela-Sassari. L'obiettivo sarebbe dovuto essere quello di ridurre il percorso di 15 chilometri con un risparmio di 18 minuti.

Varianti bocciate

Delle cinque modifiche sostanziali al percorso, con gallerie e cambi di tracciati, ne resta solo una. La Commissione Via ha, infatti, bocciato la variante di Bonorva-Torralba. Una mazzata, l'ennesima sulla via crucis ferrata della Sardegna. A segnare il capitolo più grave sono, però, le questioni strategiche e finanziarie. In tutta Italia, da Nord a Sud, si progettano e realizzano le reti di alta velocità, doppio binario e elettrificazione ovunque, ovviamente tranne che in terra sarda. I piani d'azione di Rfi, Rete Ferroviaria Italiana, sono il lasciapassare al più grande scippo su rotaia mai compiuto ai danni della Sardegna. Non solo non è stato concepito che i sardi possano e debbano disporre di alta velocità, alla pari degli altri cittadini italiani ed europei, ma gli sono state assegnate risorse insignificanti nel quadro già disastroso delle ferrovie sarde, le peggiori d'Italia, secondo l'istituto Tagliacarne che misura il divario infrastrutturale. Se l'indice della media italiana è 100, le strade ferrate della Sardegna valgono appena 15. Un disastro atavico.

Elemosine di Stato

Gli stanziamenti sono messi nero su bianco nelle corpose carte del Contratto di programma tra lo Stato e Rfi. Per la Sardegna lo stanziamento per il quinquennio 2019-2023 è di 225 milioni di euro. Tutti soldi dei sardi, nel senso che fanno parte di un riparto automatico di fondi di coesione. Zero stanziamento aggiuntivo sia della società di gestione che dello stesso Stato. E poi il raffronto con le altre regioni, a partire dall'altra isola, la Sicilia a cui vanno la bellezza di 7 miliardi e 251 milioni. Cifre imponenti per la connessione tra la Puglia e la Campania, con 5 miliardi e 787 milioni stanziati. Per il Mezzogiorno sono calcolati investimenti ciclopici per 17,5 miliardi, dalla direttrice adriatica alla Napoli-Bari, la direttrice Tirrenica Sud e la Messina-Catania-Palermo. Alla Sardegna va appena l'1,28% dell'intero malloppo ferroviario, alla Sicilia il 41%, a Campania e Puglia il 33%. Binario morto per l'isola, senza soldi e con i treni destinati alla Sardegna dimenticati chissà dove. Ma questo è un altro capitolo dell'infinita saga ferrata della terra dei Nuraghi.

Mauro Pili
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