Confesso: quando la direzione dell'Unione mi ha chiesto di scrivere un editoriale sull'Ilva, ieri, mi volevo dare malato. Ero tentato perché in queste ore, chi ha a cuore il bene dell'Italia, e soprattutto quella quota vitale di 1,5% del Pil prodotto dalla più grande industria siderurgica d'Europa, deve combattere con due diverse forme di pericolosa demagogia.

Da un lato ci sono - mi scusino gli interessati - dei matti: simpatici matti, ma matti. Estremisti, sognatori, teorici della cosiddetta "decrescita felice", del tutto fuori dalla realtà e quindi convinti che chiudere l'impianto sia una trovata geniale. L'Ilva avvelena, ci dicono anche in queste ore, l'acciaio costa meno farlo nel Terzo mondo, spiegano, bisogna dire no al ricatto salute/lavoro (cancellando la produzione, ovviamente). Come spesso capita, partendo da tre affermazioni parzialmente vere (purtroppo) propongono una soluzione del tutto demenziale: trasformare l'acciaieria di Taranto in un sito di itticultura per produrre le cozze pelose, o - questo lo disse addirittura Beppe Grillo - "in un grande ecoparco" (ovviamente mandando subito a casa 10mila lavoratori diretti e altri 10mila dell'indotto).

In altri Paesi, quando ciò accade si chiama direttamente il 118, qui da noi - purtroppo - li stiamo ad ascoltare, e se prevalesse questo progetto di presunta riconversione la fabbrica resterebbe come una enorme cattedrale abbandonata e venefica, come è già accaduto a Porto Torres, come accade in tutto il Sud deindustrializzato.

L'altro estremismo è quello non meno pericoloso di chi oggi tifa per la cordata indo-francese di Mittal e sostiene le ragioni di chi vuole andarsene domani, scappando, per giunta spegnendo gli altoforni. Povera Mittal, ripetono gli amici del giaguaro: gli tolgono uno scudo indispensabile per produrre. Poverini, sono perseguitati dai magistrati. Povera Mittal, produrre acciaio in Italia non è più conveniente. E siccome anche questa tesi, più pericolosa perché piú verosimile, trova molto sostenitori, occorre essere chiari sui fatti. 1) Mittal non è stata costretta da nessuno a prendere Ilva: lo ha voluto lei, e ha addirittura sfidato una cordata concorrente (in cui c'erano Cassa depositi e prestiti, Ast e Jindal) per farlo. 2) meno di un anno fa hanno sottoscritto un patto, che comportava precisi impegni occupazionali e produttivi. 3) Mittal oggi dice di non poter rispettare il cronoprogramma sugli interventi ambientali. Ma quel patto non gli è stato imposto dall'alto (lo hanno proposto, negoziato, concordato e sottoscritto loro!). 4) Mittal dice che se ne va per lo scudo tolto, ma l'estate scorsa aveva già violato l'accordo occupazionale appena sottoscritto (rifiutando ogni richiesta di incontro per stilarne un altro). 5) Non si capisce perché la sola Mittal - in Italia - dovrebbe godere di uno scudo "ad aziendam" che non esiste in nessun Paese d'Europa (secondo la Corte si è a rischio di incostituzionalità) mentre tutti gli altri imprenditori italiani che sostengono enormi costi di bonifica e di smaltimento - ce ne sono tantissimi, anche in Sardegna - dovrebbero rischiare e pagare di tasca loro.

Ecco perché il sospetto sull'operato della multinazionale franco-indiana è legittimo: il grosso dei costi degli interventi ambientali, fino ad oggi, sono stati pagati da noi (lo Stato) con i soldi sequestrati ai Riva. E Mittal con l'acquisizione ha eliminato il più grande concorrente europeo. Ha già ereditato il suo mercato, perde molto soldi nella produzione (questo va riconosciuto) ma - per paradosso - in un momento di crisi del mercato mondiale, per ogni tonnellata di acciaio in meno che produce in Italia, ne vende una in più prodotta altrove, a costo più bassi. L'unica soluzione che a me sembra necessaria - dunque - scontenterebbe sia il partito eco-demenziale, sia quello finto-industrialista. Se l'azienda non ritira l'ultimatum ricattatorio (mandare un dipendente su due in cassa integrazione!) bisogna passare al secondo arrivato nella gara. E se la cordata non c'è più (Mittal - guarda caso - ha assunto proprio a Taranto la più importante dirigente di quel gruppo) occorre nominare un grande manager come commissario per riavviare subito la produzione e ultimare le opere ambientali. Il compromesso fra tutele e lavoro, infatti, è l'unica via percorribile. E per di più va fatto in tempi rapidi: perché i franco-indiani hanno già smesso di rifornire l'acciaieria. E non tutti sanno che se quell'altoforno si spegne, si spegne per sempre. Se così accadesse - questo è l'ultimo paradosso - i due partiti di cui ho parlato festeggerebbero insieme. A Taranto forse si coltiverrebbero molluschi, forse sulle rovine dell'impianto sorgerebbe un bel parco (sarebbe pieno di veleni), e di certo avremmo ventimila disoccupati in più da mantenere a spese dello Stato, e - ovviamente - nel Paese che è ancora la seconda manifattura d'Europa, useremmo solo acciaio indiano, e di qualità inferiore. Bel risultato, vero?

LUCA TELESE

(Giornalista e autore televisivo)
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