Un gran fermento di rivendicazione agita gli animi di molte persone in questi giorni, verosimilmente azzarderei più donne che uomini, rispetto alla visione distorta e anacronistica della donna quale essere sacrificale di un contesto sociopolitico che, ipotizzando l’imminente riapertura del settore economico post pandemico, non fa una piega su chi dovrebbe aver cura dei figli, vista la penuria di altrettante valide soluzioni per le attività extra-genitoriali funzionali a loro.

La risposta più quotata, mai espressa esplicitamente, ma sentita sotto pelle da moltissime donne è che ancora una volta sarà la donna a doversi immolare nel ruolo della cura della prole al di là di qualsiasi altra sua inclinazione professionale, personale e di autorealizzazione.

E se da mamma avrà la fortuna di avere (ancora) un lavoro e di poterlo svolgere in smart-working (spacciato come occhio di riguardo), il gioco è fatto… uno sguardo al pc e l’altro alla prole (che ci vuole! Senza alcuna attenzione peraltro alle diverse incombenze a seconda di stato di salute, fase evolutiva e quantità della prole).

Come è giusto che sia ho letto una grande, profonda, viscerale indignazione. Di amiche, colleghe, professioniste, donne. Ecco vi comprendo, ma non riesco a indignarmi…

O meglio, non riesco a farlo per questo presente e per il futuro che si paventa. La mia indignazione più profonda è rivolta al nostro passato e all’idea, fasulla e irrealistica, di pensare la nostra cultura come se fosse, nel tempo, riuscita veramente a emancipare la donna come essere, come genere, come status dal ruolo di madre. Non è stata raggiunta alcuna emancipazione in questo e gli scenari sociali, che sembrano aprirsi dopo questo lungo tempo pandemico e sospeso, non fanno altro che ricalcarne naturalmente la visione stereotipata.

Chi si occupa di psicologia perinatale e, nello specifico come me, di studiare le immagini mentali che guidano le madri e i padri verso l’acquisizione del ruolo genitoriale lo sa fin troppo bene. Qualsiasi sia l’età dei genitori, lo status economico e il grado di reciproca emancipazione (pre- figli) troppo spesso non appaiono immuni, nel momento in cui arriva nelle loro braccia un neonato, dall’essere investiti da una serie di credenze radicate – spesso sia in loro che nel contesto che li circonda - sulle capacità stesse della cura di quel nuovo essere: istinto naturale al limite di una investitura divina per la donna, impacciamento e incapacità per il padre. Nulla di più falso, sia in un caso che nell’altro. Ad entrambi dovremmo rendere il merito che si nasce genitori insieme ai figli, anagraficamente si ha la stessa età, e che (per quanto riguarda il ruolo genitoriale) l’istinto è una dimensione che guida la costruzione di un progressivo sapere, non il sapere stesso.

L’indignazione deve abbracciare quel modo di raccontare la maternità che affonda le sue radici in una cultura, visiva e concettuale, che ricalca le orme di una donna immolata ad una maternità sacra e priva di scelta volontaria e personale. Un racconto della maternità che ci vuole ancora tutte mosse da quel modello di donna, molto italiano, chiamato Madonna, in cui scelta del concepimento, appagamento nel ruolo e sofferenza di madre non hanno nulla a che fare con la narrazione della sua reale esperienza di donna, ma esclusivamente con la storia - in primo piano - del frutto del suo grembo.

In lei infatti nessuna madre si identifica come vissuto di madre, ma ne patisce la sola rappresentazione di perfezione. Dimentichiamo (o ignoriamo) che quella perfezione è una creazione immaginifica, frutto di una cultura patriarcale e “maschilmente” monoteista, che aveva necessità di sviluppare e promuovere quel tipo di modello di donna per i suoi interessi legati a ruoli sociali, demografia ed economia. O, a voler essere ancora più brutali, per mettere a tacere lentamente e subdolamente quel senso divino presente nella donna per la sua capacità di contenere e dar vita alla vita. Quel sacro che è insito in lei e che è stato nel tempo banalizzato traducendolo nello stereotipato concetto di istinto materno capace di riconoscere un pianto di fame da quello del sonno.

La mia indignazione affonda le radici in questa mancata emancipazione, perpetuata ancora oggi nella privazione di una cultura libera da stereotipi fin dalla scelta primordiale ed intima dell’essere o meno madre, così come di essere madre scrollandosi di dosso modelli fuorvianti. Tutto il resto è cosa già nota.

Gisella Congia

Psicologa Perinatale

Esperta di Fotografia Psicosociale
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