Un caseggiato pieno di vita, dove persone e voci si inseguono. Il "bambino lucertola", però, deve stare nascosto anche se vive nel "paese dell'accoglienza". Dal suo nascondiglio osserva, riflette, ricorda con nostalgia il luogo da cui è partito, un luogo dove Nonna Assunta lo coccolava e lui poteva correre dietro al pallone e inseguire le vespe. Ora, invece, si ritrova clandestino in un mondo che da una parte lo intimorisce e allo stesso tempo lo attira sempre di più.

Comincia così Il bambino lucertola (Armando Dadò Editore, 2020, pp. 184), il nuovo romanzo di Vincenzo Todisco, una delle voci più evocative ed emotivamente coinvolgenti del panorama letterario della Svizzera.

E proprio nella Confederazione elvetica il libro ha la sua ambientazione. Siamo, infatti, nella Svizzera degli anni Sessanta del secolo scorso quando, a causa dell’allora vigente statuto sul lavoro stagionale, per molti lavoratori stranieri non era previsto il ricongiungimento con la famiglia e quindi molti di loro non avevano il diritto di portare con sé i loro bambini. Questa situazione costringeva molte famiglie a tenerli nascosti per evitare di essere espulse e perdere il lavoro. È quello che accade al protagonista del libro, il “bambino lucertola”, un nome la cui origine ci viene spiegata dallo stesso Vincenzo Todisco:

"Il bambino del romanzo, che tra l’altro non ha un nome, si chiama “lucertola” perché nella sua reclusione forzata assume via via le sembianze e i movimenti di una lucertola: striscia per terra, si infila sotto il letto o dentro l’armadio, guizza via senza far rumore, rimane immobile trattenendo il respiro. È sua nonna Assunta a chiamarlo così perché in un primo periodo, quando i genitori vengono ancora a trovarla insieme al bambino, lei si accorge che il piccolo si muove in modo singolare, come se fosse costantemente minacciato da un pericolo imminente".

Nel libro a narrare la storia è il bambino in prima persona. Perché questa scelta?

"Perché, dopo tanti tentativi, si è rivelato l’unico modo possibile di raccontarla. Al centro del romanzo si pone la figura del bambino, recluso, come nelle scatole cinesi, prima nel palazzo dove vive con i suoi genitori, poi nell’appartamento, nella sua stanza, nell’armadio. Era necessario dare questa dimensione alla storia. Tutto è narrato dal punto di vista e dalla prospettiva del bambino, come se avessi piazzato una telecamera sulla spalla del protagonista. In questo modo chi legge può osservare le situazioni e seguire l’evolversi degli eventi attraverso gli occhi del bambino che non vede mai il mondo tutto intero, ma solo parte di esso, solo le gambe degli altri personaggi, gli stivali del datore di lavoro del padre quando entra in cucina, le facce dei personaggi che spia attraverso gli spiragli. Era importante mostrare come il bambino si orienta nella penombra dell’appartamento e del palazzo in cui vive affidandosi all’udito, alla vista e alla percezione tattile".

Non è quasi ironico che nel libro il luogo dove vive il bambino venga chiamato "il paese dell'accoglienza"? È un'ironia voluta?

"Da un lato è un'ironia voluta. 'Il paese di accoglienza' è un termine tecnico, in tedesco Das Gastland, effettivamente usato un tempo. In realtà il ‘paese’ molto spesso non si presentava accogliente, tanto meno per chi, come gli stagionali, erano privati di molti diritti. Dall’altro lato il termine è usato per conferire alla storia una dimensione universale. Non si trattava per me né di puntare il dito sulla Svizzera né di ridurre il romanzo ad una cruda denuncia sociale. Ancora oggi nel mondo ci sono molti bambini clandestini, basti pensare ai cosiddetti sans-papiers, costretti a vivere reclusi, da illegali. Il bambino lucertola è uno di loro, la denuncia che esce dal libro è in primo luogo questa".

Cosa ci dice del tema dell'immigrazione una storia come quella del bambino lucertola?

"Lo scrittore svizzero Max Frisch aveva avuto modo di pronunciare, a proposito dell'immigrazione in Svizzera, la famosa frase: 'Abbiamo chiamato braccia e sono venuti uomini'. Il padre del bambino lucertola è un ottimo muratore. Il suo datore di lavoro, nel romanzo si chiama Jakob Dühr o semplicemente “il Padrone”, ha bisogno di lui per portare avanti i lavori al cantiere (durante l’inverno i datori di lavoro scendevano al sud per reclutare i muratori e manovali per i loro cantieri). Alcindo - così si chiama il padre del ‘bambino lucertola’- però non è soltanto un lavoratore, non è fatto di sole braccia, ma ha anche un cuore che batte, dei sentimenti, dei bisogni umani, come quello di stare accanto alla propria famiglia. Lo statuto dello stagionale negava questo diritto e cancellava la dimensione umana dei lavoratori stranieri, come accade ancora oggi in molte situazioni di immigrazione".

Il romanzo ha accenti molto drammatici...ma c'è una speranza alla fine della storia del "bambino lucertola"?

"Una delle tante sfide che ho incontrato durante la stesura del romanzo è stata quella di fare in modo che il bambino non perdesse la sua dimensione umana e diventasse un rettile, una lucertola a tutti gli effetti. Le condizioni nelle quali è costretto a vivere lo spingono verso il baratro, ma c’è qualcosa che lo salva: gli affetti umani, le storie e i libri che scopre nello studio del Professore, la musica della violinista, il ricordo di nonna Assunta, delle sue preghiere e delle sue filastrocche, l'amore per la sua coetanea Emmy. La fantasia, le storie, la cultura in genere, gli affetti umani hanno il potere di salvare il bambino e di non farlo diventare una lucertola".
© Riproduzione riservata