C ontinua il duello tra Stato e Regioni, ormai su tutto. Lazio e Sardegna litigano sui rientri dalle vacanze, con addebiti di Zingaretti alle politiche sanitarie isolane.

Persevera il conflitto tra la Sicilia e il Viminale, con (prima) le sfuriate del sindaco di Messina, sugli arrivi dallo Stretto e (ora) del governatore Musumeci, che ha ordinato la chiusura degli hotspot.

Non parliamo poi delle varie ordinanze sui rientri dall'estero (Spagna, Malta, Croazia ecc.). Per il ministro della Salute, basta fare un tampone precauzionale, per il governatore della Campania serve una quarantena di 14 giorni, per quello del Molise un tampone non basta: ne servono due, a distanza di dieci giorni. Nel frattempo, isolamento fiduciario.

Insomma, l'emergenza sanitaria, che il Governo aveva pensato di gestire in maniera omogenea sul territorio nazionale, riesplode nuovamente con tutte le sue contraddizioni e con un andamento che tutto è meno che omogeneo: i focolai prevalentemente al nord, i contagi ora scesi al centro-sud, causa vacanze, e così ulteriori, particolari situazioni, come quella degli hotspot siciliani.

In tutte le diverse situazioni citate qual è il tratto comune? Sicuramente un assetto di competenze, tra Stato e Regioni, che fa acqua da tutte le parti, specie dinanzi a questioni urgenti che mettono in serio pericolo la vita dei cittadini e non possono certo attendere i tempi della giustizia, quali che siano.

I n questo, mi pare evidente che la riforma del 2001 che ha ricompreso nella legislazione concorrente “la tutela della salute”, al posto della previgente “assistenza sanitaria e ospedaliera”, sia stata un sostanziale fallimento, avendo generato uno dei più lunghi e incerti contenzioni costituzionali della storia repubblicana, ben lungi dall'essere terminato.

I successivi ritocchi normativi non hanno migliorato il quadro. Quando infatti le competenze diventano incerte (specie se la finanza pubblica scarseggia) non cresce la leale collaborazione tra i livelli istituzionali. Crescono inerzia, scaricabarile e accuse reciproche.

Comune è anche l'immaturità della classe politica (nihil novi) che preferisce il protagonismo e la retorica alla soluzione dei problemi concreti, incurante dei disagi che il bailamme normativo genera per famiglie e imprese. Immaginatevi chi, di ritorno da un soggiorno estero (non esistono solo i ragazzini che si ammassano in discoteca), si trova a dover assumere un avvocato solo per capire a quali adempimenti deve sottoporsi.

Via, dunque, al valzer della retorica, alle esibizioni muscolari: si allunga la lista dei paesi sospetti, senza distinzioni di sorta. Si chiudono, tout court, i centri di accoglienza, mandando i migranti in altra regione (che emanerà, a sua volta, un'ordinanza di trasferimento) o di nuovo in mezzo al mare (a chi, questa volta, la patente di sequestratore?). Si cancellerà, a breve, pure la rappresentanza parlamentare, anch'essa ormai percepita come un problema, un ramo secco da potare. Sull'altare del populismo urlante, le istituzioni divengono balconi per comizi plebiscitari, i ruoli pubblici trampolini per aspiranti al posto fisso, il web la piazza urlante. Tutti contro tutti, vince chi grida di più o chi solletica meglio la pancia di odiatori e complottisti: la terra piatta, le scie chimiche, il signoraggio bancario.

Ha fatto bene, Gustavo Zagrebelsky, a evocare, dinanzi al referendum del 20 settembre, l'asino di Buridano che, tentato da acqua e fieno, non riesce a scegliere e muore di stenti. Quell'asino siamo tutti noi. È il Paese intero che, preso tra più fuochi, resta sbigottito, frastornato, paralizzato. Il frastuono rende tutti i suoni simili ed egualmente respingenti. Prevale dunque l'indifferenza, l'indecisione. Gli eventi si susseguono. La storia va avanti. E noi stiamo a guardare.

ALDO BERLINGUER
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