P arafrasando l'immensità di “Guerra e Pace”, potremmo certificare quanto segue: “L'italiano è sicuro di sé perché è eccitato e irrequieto, e si dimentica facilmente di se stesso e degli altri. Il sardo è sicuro di sé perché non sa e non vuol sapere nulla, persuaso com'è che nulla si può sapere”.

Tolstoj avrebbe vagheggiato la situazione dell'Isola intuendo una rassegnazione priva di scopo, che avrebbe messo infine i grandi personaggi dell'opera-mondo, al cospetto del loro stesso destino. Almeno fino a che il lumicino della coscienza avesse tenuto desta la vita e le sue implicazioni con la realtà materiale. Prese singolarmente, le bellezze dell'Isola - comprese le bellezze umane ampiamente disseminate negli ambienti sociali minimali, fagocitate dall'arrendevolezza che incute soggezione all'osservatore - farebbero impallidire il pensatore più intransigente. C'è tutto. La comodità vanagloriosa per l'emiro ammainato in rada col denaro; il sentiero montano per il camminatore invaghito dalle atmosfere dei piccoli comuni; le litoranee pitturate per i viaggiatori liberi di volare sulle ali del vento.

Un portento. Senza soluzione di meraviglia. Nemmeno tralasciando il vivere - letteralmente - su un mare di cultura, malamente sottostimata. C'è nella psicologia dell'isolano un oscuro riparo proprio nell'autostima. A guisa di ciò si ritiene che la nostra altezza spirituale, quella che permette di raggiungere traguardi insperati, non meriti - mai compiutamente - un opportuno impiego nella vita.

U n impiego che risolva il male incurabile dell'attesa non corrisposta, tradotta infine nell'idillio vagheggiato da qualsiasi emigrato di ritorno per le vacanze. Sentirsi accolti in casa propria, senza l'obbligo di partire in cerca di una condizione esistenziale al riparo da sorprese. In tali estese implicazioni, ossessionati dalle imposizioni, incastrati dalle abiezioni, moralmente distrutti come i soldati di Napoleone straziati dalla campagna di Russia, finiamo per celebrare le briciole dell'esistenza, mentre il pasto luculliano giace intonso di là dei piccoli confini individuali.

Siamo senza pari. È indubbio. Dovremmo solo liberarci dal fardello inutile dell'autocommiserazione, facendo strame di tutto un passato relegato a isola succursale da impiegare alla bisogna. I problemi essenziali della Sardegna sono fondamentalmente due, è lapalissiano. Uno riguarda la guerra. Almeno simulata. La condizione (imposta) di servitù militare con 35mila ettari di territorio meraviglioso impiegato nelle manovre altamente sensibili (i cui segreti devono necessariamente rispondere a vincoli di sicurezza nazionale) impedisce- di fatto- qualsiasi significativa espansione economica senza ledere interessi vitali dello Stato sovrano (a sua volta invischiato dagli impegni storici nella Nato). È ragionevole sperare che una politica illuminata sappia ridisegnare questo interregno lungo ormai mezzo secolo, restituendo al popolo ciò che per tanti anni è stato negato. Il secondo aspetto, non meno essenziale, è la rassegnazione ormai conclamata, simile, come detto, alla condizione della Grande Armata incalzata dai soldati russi affamati di rivincita. Ne conosciamo la logica. Il sardo, l'individuo, la mente consapevole del proprio destino mortale, non intende abbandonare la condizione del calabrone, e in tale ostinazione - a tratti commovente- permette alla hybris di replicare il tema della tragedia isolana. Pocos, locos y mal unidos. Ma non necessariamente il cambio deve significare lo sradicamento e -con essa- l'oblio dell'appartenenza. Cambiare essenza, espandersi, vuol dire modificare la struttura della mente al fine di maturare un potenziale umano più consapevole della propria natura, dotato perciò di strumenti utili a tessere trame con il mondo. Altrimenti, varrà sempre la legge del più forte, che in un contesto globale esasperato dagli asprissimi contrasti geoeconomici, significa lottare per restare a galla giocando a palla con poche monete a credito.

La moratoria con lo Stato ci vede ancora esuli e troppo dipendenti. Ancora, una politica davvero illuminata porterebbe invece la Sardegna nel mondo creando una rete capillare di contatti con realtà estranee interessate a creare risorsa sfruttando il “terroir” geografico quasi imbattibile. Sorprende, stupisce, ad esempio, come la regione non sia rappresentata ufficialmente (almeno avallando ragioni di statuto) nella nazione europea che richiama migliaia di emigrati sardi in cerca di un futuro, quell'Inghilterra, porta del mondo, ove ogni fortuna (e destino) necessariamente transita prima di incrociare la rotta della consacrazione. Siamo un seme non impiegato. Un calabrone in cerca d'assetto. Qualsiasi torto accada con tacito consenso, è una colpa o una rinuncia. Ho il sospetto che temiamo di affrontare la grande sfida. Il mondo ha bisogno di noi. Ma abbiamo paura. Però non tutti i forestieri alla porta sono francesi in terra di Russia.

ANDREA MEREU

OPERATORE CULTURALE A LONDRA
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