L e isole. Solo chi ci è nato può capire il nesso. Essere isolano significa, per qualche ragione onnivora del ristretto inconscio collettivo sardo, vivere una sottile sofferenza indefinibile. È la mancanza di un altrove che - ma questa è la beffa, appunto, che rende ineguagliabile il nostro destino - non si desidera, nemmeno si cerca, addirittura si teme. Chiunque si sia avventurato attraverso la campagna sarda e ne abbia indossata l'atmosfera, magari in un soleggiato pomeriggio di limpida primavera, può ben capire la sensazione di onnipotenza e - insieme - di insostenibile nostalgia, come se la vita all'improvviso avesse trovato il suo apogeo e non desiderasse altro per appagarsi.

In tale correlato metafisico, giacché tutti i sardi sono esseri a mezza via fra l'inferno e il paradiso, la iattura più dura, la cicatrice che non rimargina nemmeno adottando opportuni rientri, è il disterru dell'anima che vaga alla ricerca di se stessa.

Prendiamo Nivola. Che magnifica assonanza con Nuvola. Oppure Sciola. Rima perfettamente con scuola. Due uomini divinizzati, scolpiti come entità antiche. Nonostante la distanza fisica li abbia introdotti a quella dimensione mistica dove - forse - una suonata di Gavino Murgia potrebbe condurci con la potenza creatrice dell'immaginazione. La superficialità terrena di un muratore newyorchese, senza badare a spese con l'inettitudine, ha divelto un simbolo assai sacro per qualsiasi sardo di predominanza antica che abbia innestato nella vita una radice spirituale.

I o mi ripeto abitualmente seppure sussurrandolo alla mente: «Dove il sardo posa piede, quello è suolo sacro». Così un ignaro operaio americano, magari, chissà, discendente di emigrati italiani, costretto dal dovere e dal peccato, ha leso con lo scalpello quanto di più bello possiamo decantare ovunque sospingiamo le nostre esplorazioni intrise di arte e umanità terrena. L'appartenenza all'isola.

Non basterebbero queste righe per inoltrarmi nella magnifica poesia che verrebbe se solo accennassi alla bellezza dei paesaggi o agli sconfinati presagi della nostra discendenza. Preferisco attenermi alla mera cronaca; che seppure dolorosa ci fa rivivere l'unicità autentica dell'essere sardi, i quali, spronati all'unisono dall'indole, reagiscono al massacro invocando quella giustizia divina che possa ridare vita ai cavallini. Posso dirvi, da testimonianza di un'amica americana residente nei pressi del sito violato, che la comunità italiana a New York ha risposto in maniera così accorata all'appello delle istituzioni sarde, da indurre immediatamente la sovrintendenza a porvi rimedio.

Che bellezza, la ristrettezza. Anche sociale, anche geografica. Anche economica. Non mi si confonda: non sono un promotore del pauperismo. Nemmeno un estimatore dell'individualismo sostentato dallo Stato. Intendo solo suggerire una prospettiva rappresentativa dell'altrove dove, quando si lavora, si è pur sempre dipendenti ben pagati dai quali far dipendere la propria vita da emigrati. Londra, dove vivo, è una città viva, di rara bellezza; capace con il tempo di offrire un piccolo mondo riservato ove accomodarsi con le necessità acquistabili. Un gioco di società talmente perfetto e meticolosamente organizzato da suscitare perfino imbarazzo davanti a tale precisione. Eppure, nonostante l'estrema applicazione del diritto e l'inappuntabile dedizione al dovere, qualcosa manca. Qualcosa che, se mai dovesse soggiungere per ridestare la giornata simile a quella di un piccolo borgo, potrebbe essere incontrarsi per strada con la collega desulese e lasciarsi andare a una chiacchierata in limba che susciti curiosità fra i passanti.

Mai come ora, forse come mai più, data l'urgenza della situazione, una rete intessuta fra comunità locali potrà riscattare le aree rurali spazzando via l'orrenda dicitura di città metropolitana. Mi verrebbe da suggerire, non senza acceso disprezzo per l'etichetta e il “continentalismo” che la ricetta debba ricercarsi nella tela grezza, nel bisso, nell'orbace della mente, nel granito del cuore, nel tenore più autentico che trovi il suo fulcro attraverso le parole «deo seo sardu». Davanti al progresso incipiente che distoglie la coscienza dal poco necessario, è ben più facile acquistare un biglietto per spostarsi altrove rispetto a quanto possa essere apprendere le tradizioni, l'uso corrente de sa limba, la conoscenza dei propri luoghi e gli antichi retaggi. Andare altrove è una sfida. Certamente. Andare altrove senza essere nessuno, senza aver prima innestato un legame autentico con il proprio fulcro, rappresenta però una fuga in libertà condizionata. Non è il progresso che ci occorre. È l'adesso; il qui e ora. L'atteggiamento e il sentimento davanti alla sfida dei tempi. Parafrasando un detto: ogni mattina in Sardegna, un figlio della terra si alza e concorre al suo destino. Non conta essere uomo o donna, bensì l'amore che questo destino suscita. La Sardegna può. È scritto. Noi guardiamo la luna. Ma è il dito che conta.

ANDREA MEREU

OPERATORE CULTURALE A LONDRA
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