P assaporto sí, passaporto no, passaporto forse. Anche le ottime idee, talvolta, possono produrre risultati pessimi. Questo paradosso oggi si verifica perché il tempo - soprattutto in politica - è un fattore decisivo, e spesso le ottime idee vengono calate nella realtà nel momento sbagliato e nel modo sbagliato.

Ci dispiace per Christian Solinas, che sicuramente ha immaginato il cosiddetto passaporto sanitario per la Sardegna come uno strumento di emergenza nella fase aggressiva della pandemia, un possibile baluardo a tutela dei sardi. Ma oggi il presidente si ritrova a cercare di realizzare il suo progetto, in un momento completamente diverso, in cui i numeri del contagio stanno crollando in tutta Italia, e in cui lo strumento che doveva essere una opportunità diventa un pericoloso ostacolo. Il passaporto oggi è un elemento di cortocircuito persino dentro la giunta, dove ormai su questo tema si marcia in ordine sparso e si dicono le cose più disparate. Ieri, il godibile articolo di cronaca di Roberto Murgia, su queste pagine, sembrava il canovaccio di un teatro dell'assurdo. Tuttavia Murgia, non aveva nessuna malizia satirica preventiva, non faceva altro che mettere in fila i fatti di venerdì.

L a mattina l'assessore Mario Nieddu spiega che «non serve nessun test», nel giro di poche ore il presidente lo rampogna, e così - nella stessa giornata l'assessore si autoemenda: «Sulla richiesta di autocertificazione non intendiamo fare passi indietro». Noi chi? Nulla è peggio, in politica, del farsi opposizione da soli. Ed ecco perché il resto del Paese - e il mondo - assistono interdetti ad un gioco di tira e molla che rende impossibile pianificare qualsiasi viaggio, qualsiasi impegno, qualsiasi vacanza in Sardegna proprio nelle ore in cui i superstiti delle quarantene decidono delle loro ferie: vado, non vado, faccio il test (quale? dove?), anzi non lo faccio, non parto. A pochi giorni dalla caduta del divieto di viaggi interregionali in Italia, questa incertezza non è più solo un problema interpretativo. È una colpa.

L'ottima idea, infilata nel frullatore impazzito del sistema istituzionale italiano, è diventata una chimera. «Servono regole certe, non veleni», scriveva sull'Unione di venerdì Massimo Crivelli, e invece in poche ore è accaduto l'opposto: il quadro si è fatto vago, i veleni si sono liberati, hanno iniziato a scorrere nel circo mediatico e nel circuito primario del turismo regionale. Ovviamente anche il comitato tecnico-scientifico che consiglia il governo ci ha messo del suo. E mi domando: come si fa a pretendere un rigoroso distanziamento sociale in regioni in cui il tasso di contagio è sotto lo zerovirgola, e aprire senza cautele, e in ugual misura, la Lombardia, che ospita più del 30% dei casi scoperti ogni giorno in tutta Italia? Mistero. I virologi (non tutti, ma molti) comunicano in queste ore l'impressione di essere stupiti, se non interdetti, dell'abbattimento dei tassi di diffusione e contagio. Adesso, pur non abbandonando i foschi pronostici a breve termine, rilanciano, posticipando il vaticinio della catastrofe ad ottobre, con la previsione della “seconda ondata”. Bene, tutto questo, a rigor di logica deve avere effetti anche nel dibattito sul passaporto sanitario. Se lo scenario dice che rischiamo un nuovo lockdown, ma anche che per ora il contagio resta a livelli bassissimi, questo è un motivo per lubrificare il più possibile la macchina del turismo, mettendo in sicurezza tutto il salvabile della stagione turistica. Il messaggio al mondo deve essere: venite. E di certo non può essere “venite, ma solo dopo aver fatto un test che per ora non si può fare da nessuna parte”. Come ha riassunto in una battuta efficace il vicepresidente di federalberghi SudSardegna Giuliano Guida Bardi: «La politica deve scegliere. Aprire, non aprendo, e chiudere, non chiedendo, non è un errore. È un suicidio». Difficile dargli torto.

LUCA TELESE
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