G uerra è la parola più di frequente accostata al coronavirus. Non è solo un'epidemia e nemmeno una pandemia, ma una guerra contro un nemico invisibile. Che ferisce e uccide. I medici dicono che sono stati mandati a «combattere una guerra a mani nude». I governi avvertono che «la guerra sarà lunga, porterà dolore e privazioni». Sabato notte il premier Conte ha detto che questa crisi è la «più grave che l'Italia abbia conosciuto dal secondo dopoguerra». Insomma, questa volta la tendenza all'iperbole della politica (ma anche del giornalismo) italiana sembra giustificata. Lo scenario in effetti, è proprio di guerra: strade vuote, niente auto in marcia (e neanche parcheggiate) né persone. Serrande abbassate, luci spente, file davanti ai supermercati. Non c'è ancora la tessera per il pane ma se saltasse fuori non ci stupiremmo. Poi, ci sono pagine e pagine dei giornali (diventati in pratica monotematici), ore di dirette televisiva, improvvise conferenze stampa notturne da Palazzo Chigi. Una copertura mediatica mai vista. E ci sono i morti: 14mila nel mondo, 5.400 in Italia. La guerra civile in Siria sinora ha provocato 384mila morti. La notizia l'avreste potuta trovare, prima del coronavirus, in un taglio basso a pagina 20. Ora, neanche là.

IVAN PAONE
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