S i tendono i muscoli del “nuovo” governo e arrivano, vibranti, le solite promesse, i proclami, gli anatemi. Saremo inflessibili, annuncia vigorosa una esponente della maggioranza alla Camera: lotta spietata all'evasione fiscale, più controlli, poteri ispettivi e inibitori, manette per i soliti furbetti. Va dunque in scena la commedia del parens patriae, con virgulti rappresentanti pronti a sguainare la sciabola e punire con inusitata severità il cittadino inadempiente.

Non viene invece neppure lambito il vero, grande problema: quello di un rapporto possibile, tra cittadino e potere, che è ormai arrivato al capolinea, sabotato da decenni di spesa pubblica clientelare, corroso dalla reciproca sfiducia, minato dalla perdita di credibilità della politica e del sistema pubblico.

Si dà infatti il caso che nel novero della cosiddetta “fiscalità” rientrino anche i ricavi derivanti dalla gestione dei beni pubblici i quali, ancor oggi, restano un'entità tratteggiata, nascosta in un cono d'ombra. Infatti lo stesso Stato, severo ed inflessibile, che annuncia, a suon di sciabolate, l'ennesima cura dimagrante per i cittadini non si è ancora dato pena di stimare l'enorme quantità di beni, di varia caratura, che esso stesso dovrebbe amministrare. Parliamo non solo del cosiddetto demanio necessario dello Stato (spiagge, rade, porti, acque, presidi militari ecc.) ma anche del demanio accidentale (strade, ferrovie, aeroporti, musei, biblioteche, opere d'arte) e del patrimonio, disponibile e indisponibile.

Secondo il rapporto Istat 2018, solo il controvalore degli immobili delle pubbliche amministrazioni ammonterebbe a circa 475 miliardi di euro, tenuto conto che in larga parte si tratta di edifici abbandonati, non manutenuti ed in rapido deprezzamento. Ci sono poi le partecipazioni (quelle in società quotate si stimano attorno ai 35 miliardi), uno sconfinato novero di risorse naturali, compresi gli idrocarburi, e pure 55 siti Unesco, di cui buona parte è di proprietà pubblica. Insomma, si tratta di beni difficili da stimare ma il cui valore economico totale (VET), eccederebbe di molto, secondo alcuni, il debito pubblico italiano e la cui potenziale redditività potrebbe consentirci di ridurre la pressione fiscale ad una cifra. In altre parole, se lo Stato gestisse in modo oculato le risorse a sua disposizione, potremmo in un ragionevole torno d'anni liberarci del debito e diventare il Paese fiscalmente più attrattivo e ospitale al mondo, con ricadute socio-economiche non difficili da immaginare. Ma com'è gestito questo enorme giacimento? Perché il MoMa o il British Museum fatturano, da soli, più di tutti i musei italiani? Vogliamo parlare delle concessioni autostradali? Di quelle balneari? Del disastro petrolifero lucano? Della piantumazione di vigneti sulla necropoli di Mont'e Prama? Sorge allora spontanea una domanda: come può oggi lo Stato, che non sa (o non vuole) amministrare oculatamente i suoi beni additare taluni (se non tutti) i contribuenti di evasione fiscale? Intendiamoci: quest'ultima (specie in campo IVA) è una antica, grave piaga del nostro ordinamento, che occorre combattere senza meno, anche perché produce una inaccettabile disparità di trattamento tra contribuenti onesti (o che non possono sottrarsi al fisco) e contribuenti disonesti (o che non vogliono obbedire al fisco). Ma lo Stato, seduto com'è sulla sua proverbiale inefficienza, come può agitare lo spettro del rigore tributario e continuare a vessare i contribuenti? Come può chiedere sacrifici ai cittadini quando se facesse il suo dovere quei sacrifici non sarebbero necessari? Lo dicevano già gli antichi: inadimplenti non est adimplendum. Chi per primo non adempie non può pretendere che lo facciano gli altri. Parliamo allora, anzitutto, di evasione statale. Usiamo lo specchio, invece che la spada. E corriamo ai ripari. Il debito pubblico sta crescendo a vista d'occhio, nessuno vuol farsene carico, presto sarà troppo tardi.
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