Lei, 9 anni, sulla vecchia Jeep Willis; il fratello, poco più grande, sulla moto Guzzi 500: si mettevano al volante e gli amici spingevano. «Pericolosissimo». Il padre li aveva minacciati in modo indicibile. Inutilmente. «La mia passione per i motori è nata così». Per dimenticarla le ha provate tutte: scherma, tennis, judo, atletica leggera. «Correvo veloce ma la competizione non mi interessava, per me lo sport è una sfida solo personale». Meglio le macchine. Anche senza patente. «Ma questo non si può dire, è diseducativo».

Claudia Zuncheddu, 68 anni portati con lo spirito di una ragazzina ribelle, ricorda ancora la faccia dell'ingegnere durante la prova pratica: sei troppo sicura, vai troppo veloce. Non poteva immaginare che quella giovane dai lunghi capelli neri avesse già fatto la scuola guida al fidanzato Sergio Falconieri in vista del periplo del Mediterraneo, dalla Spagna fino al nord Africa e ritorno a Tunisi. Ed è lì che le era venuta l'idea: «Vedevo la Guardia Civil di Franco, erano cattivi ma li invidiavo per quei fuoristrada fantastici». La decisione è stata immediata: «Siamo andati in Inghilterra, abbiamo venduto il mio vecchio Maggiolone e la moto di Sergio e con 1.600 sterline abbiamo comprato il fuoristrada».

I viaggi

Era la metà degli anni Settanta: dopo lo Scientifico al Pacinotti si era iscritta in Medicina. «Avevo un Land Rover 88 prima serie. Poi c'è stato un "paracadutato", di quelli che usavano in guerra». E chissà se c'è qualche attinenza con il corso di volo in ultraleggero e il trekking nelle Ande boliviane. «C'era un volo diretto da Cagliari per Tunisi, sette ore ed eravamo in un altro mondo. A quei tempi era tutto diverso, bellissimo». In coppia con Falconieri ha fatto la Transahariana lungo la bidon cinq: «La pista collegava Algeri al deserto, ogni cinque chilometri c'era un bidone, se non lo trovavi avevi sbagliato percorso». Viaggi lunghissimi, almeno 40 giorni. Ma ancora non bastava. «Negli anni '80 era in programma la Muratti Adventure e avevano bisogno di una nota di colore». Una ragazza. «Sono arrivata in pantaloncini corti e scarpe da tennis, il figlio di Giugiaro (mitico disegnatore di auto), aveva un equipaggiamento da paura». Lui ha rotto subito, lei è arrivata. E allora ha continuato: la tappa successiva è stato il campionato italiano endurance. «Spesso ero l'unica donna». Aveva 37 anni quando è stata contattata dalla Mercedes per un collaudo al Rally dei Faraoni: settemila chilometri nel deserto egiziano. «Facevo pure la giornalista». Perché una cosa per volta è poco.

La lite

Poi la Parigi-Dakar, nel 1990. «Dovevo sistemare al lato del finestrino i nomi di pilota e navigatore, il gruppo sanguigno, la nazionalità, la bandiera. "Qu'est que c'est"? "C'est mon drapeau". "Lei è corsa"? "No, sarda". "Metta la bandiera italiana o non parte". Risultato: il Tricolore, sì, ma anche i Quattro Mori. «Lungo il deserto del Teneré, quello che attraversano oggi i migranti, ho visto siti neolitici, dune alte trecento metri, cimiteri di dinosauri, fiumi fossili. Paesaggi ostili, senza alcuna forma di vita. Si partiva con l'indispensabile, al cibo pensava l'organizzazione. Ci si lavava con l'acqua in bottiglia, se andava bene, e si dormiva in tenda, alla belle etoile. Non esistevano i telefonini e il gps era vietato: solo bussola e road book. «Non ci si poteva neppure fermare ad aiutare gli altri». Invece lei lo aveva fatto, al Rally dei Faraoni, per il norvegese della Citroen Ari Vatanen. «Gli ho dato una ruota di scorta». Così Jean Todt, futuro amministratore delegato della Ferrari, al briefing successivo aveva detto ai suoi: d'ora in poi siete autorizzati a fermarvi se trovate Claudia con qualche problema. Due mesi dopo alla Parigi-Dakar, per la prova più dura, mille chilometri in un giorno, facevano le scommesse. "Claudia arriva"? Certo che è arrivata. Il figlio di Margaret Thatcher, invece, si era perso, così come la metà dei concorrenti, e la potentissima madre aveva inviato la flotta aerea britannica per cercarlo.

Tra una gara e l'altra Claudia Zuncheddu si è laureata e specializzata in Malattie tropicali: «Volevo fare la psichiatra ma poi ho cambiato idea. La vita d'ospedale non era per me, avevo bisogno di spazi liberi». Il fidanzato era sempre lì ad aspettarla: si sono sposati pochi anni fa, senza troppa pubblicità.

Il ritorno

«Con le macchine ho smesso nel 1999, la tecnologia ormai prevaleva sulle capacità del pilota». Dopo un Camel Trophy («la prima donna della storia»), ha fatto la Parigi-Città del Capo e la Parigi-Pechino: «Il 12 settembre 1992 ero con Ambrogio Fogar venti minuti prima dell'incidente che lo ha paralizzato, faceva il navigatore di Giacomo Vismara». Clay Regazzoni, indimenticato pilota di Formula Uno, nel 1994 è volato a Cagliari per presentare alla Fiera il suo libro su quell'avventura. E al ritorno? «Sono mondi diversi e ritmi differenti ma ci si adatta. Una delle cose più belle sono le relazioni umane. Io mi trovo a mio agio col sottoproletariato urbano come nei palazzi del potere, non ho difficoltà di accesso da nessuna parte».

La libertà

Donna in un mondo di uomini si è fatta largo senza nascondere - né usare - la femminilità. «Il mio bilancio è in attivo, tutte le scelte della mia vita sono state orientate dalla libertà, nel bene e nel male». Senza rimpianti. Neanche per i figli mai avuti: «Ho temuto di pentirmi, invece no perché ho scelto io, la maternità non era compatibile con la mia vita». La politica invece sì. Il padre era sardista e lei si definisce indipendentista progressista. «Sempre di sinistra». Dal 2006 è stata consiglierE comunale a Cagliari e dal 2009 consiglierE regionale con i Rossomori. «Parlo, scrivo, denuncio, quindi rompo: non ho mai fatto sconti a nessuno». È l'eredità dello sport: libera di correre dove nessuna prima mai.

Maria Francesca Chiappe
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