«Il calcio mi ha dato un po’ tutto nella mia vita. E no, non mi ha tolto nulla. A parte qualche brutta botta». Gigi Riva sorride. Sorrideva, quel giorno. Con un nodo alla gola e gli occhi lucidi riascolto l’ultima intervista “di persona” concessa dal Mito della nostra vita di bambini, diventati grandi con l’orgoglio di uno scudetto lì, sul cuore. Il nostro. E con quel numero 11 cucito su quella maglia azzurra, con le braccia al cielo tirate su trentacinque volte. Mai nessuno come lui. Mai nessuno come Gigi Riva. Antivigilia del compleanno numero 72, 5 novembre 2016, il Mito apre la porta del suo ufficio di via Tola per raccontarsi. A una condizione: la sigaretta accesa.

La vita tutta d’un fiato. Il dolore per un padre scomparso troppo in fretta nella sua Leggiuno. La Sardegna vista per la prima volta dall’aereo, la “ghiaia” dell’Amsicora, la cavalcata verso il tricolore, il “no” alla Juventus di Agnelli, la maledizione del “Prater” di Vienna, l’amico dei giovani (su tutti Buffon) con la giacca e la cravatta da dirigente della nazionale. E poi la famiglia, i figli Mauro e Nicola, con il fardello del nome del padre da portare sui campi di calcio della Sardegna. «E sì, non è stato facile per loro. Si facevano chiamare solo per nome».

E poi il Cagliari, il suo Cagliari, il nostro Cagliari. L’ultima volta allo stadio il 12 febbraio 2017 per ritirare il collare d’oro del Coni. Ma allo stadio non andava da tempo. Le partite le rivedeva in tv conoscendo il risultato. «Non ce la posso fare. Mi viene lo stress. E di stress ne ho già tanto di mio. E il Cagliari mi fa soffrire. Soffrire e gioire». Sorrideva, Gigi Riva. Sorride. Sorriderà. Per sempre.

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