Esiste una regola aurea in politica, una regola che nessuno, nemmeno Mario Draghi o Marta Cartabia possono trascurare se non a costo di restarne travolti. Quella per cui “nessun potere” – quello politico si intenda – “è disposto a riconoscere a un altro” – quello giudiziario nel caso di specie - “i mezzi per funzionare meglio se non sono chiari i presupposti e i confini della sua azione”.

In questo contesto si inserisce l’attuale tentativo di riforma del processo penale, ed in questo medesimo contesto si esaurisce quel che resta del già consumato rapporto tra “politica” e “magistratura”. A significare che alcuna compiuta riforma sarà possibile delineare nell’interesse della comunità se prima il potere politico non riuscirà a definire, circoscrivendoli, i poteri della magistratura ed i limiti del suo potenziale di intervento sulla vita pubblica delle Istituzioni. Così costantemente arroccati, l’uno e l’altro potere, nell’anticamera dell’immobilismo funzionale finalizzato unicamente a garantire la loro reciproca sopravvivenza, quegli stessi poteri si rivelano ancora oggi, ed ancora una volta, del tutto incapaci di assicurare una tutela reale ai “consumatori” finali di quelle riforme, i cittadini, da sempre parti deboli del rapporto “contrattuale” sinallagmatico con lo Stato, se tale vogliamo idealmente accettare di definirlo.

Negli ultimi anni, la gestione asfittica dei processi ha rinvenuto il suo corrispettivo contrappasso nell’inutile decorso del tempo, ed il suo epilogo nella vanificazione dei procedimenti a suo tempo instaurati, determinando in tal modo il consolidarsi di un modus procedendi quasi ispirato alla “de-negazione” della giustizia piuttosto che alla sua affermazione. E la riforma Cartabia in punto di prescrizione, sorprendentemente, financo nella sua disordinata articolazione letterale, pare rispondere, tutto sommato, alla solita logica consuetudinaria de-negativa piuttosto che ad una reale esigenza di cambiamento in funzione utilmente dinamica: “cambiare tutto per non cambiare niente”. L’ “error in procedendo” commesso dall’attuale Guarda Sigilli è stato quello, a mio modestissimo avviso, di voler porre in strettissima correlazione il meccanismo della “prescrizione endo-processuale”, operante appunto in funzione dell’inutile decorso di un certo lasso di tempo stabilito “a priori”, con il principio costituzionalmente garantito della “ragionevole durata del processo”, ossia con un valore che andrebbe preservato in se e per se, a prescindere da qualsivoglia rigido ed acritico strumento e/o espediente di carattere processuale riflettente puramente e semplicemente l’incapacità e l’inefficienza di un sistema reticente e refrattario ad ogni tentativo di riconversione. In questo senso, il testo approvato dal Consiglio dei Ministri nei giorni scorsi appare addirittura peggiore della precedente riforma Bonafede, siccome, per un verso, ne conferma la disciplina, dal momento che la prescrizione si interrompe comunque dopo l’intervento di una sentenza di assoluzione o di condanna in primo grado, e per altro verso, prevede un meccanismo di improcedibilità dopo due anni per i processi pendenti in fase di appello e dopo un anno per quelli pendenti in Cassazione.  

Ma allora mi domando e dico: come si può ragionevolmente ritenere che la predisposizione di una soluzione tanto “ibrida” quanto “liquida”, che si incardina sull’altalenante alternarsi di una prescrizione sostanziale (quella operante in esito al processo di primo grado) con una tipicamente processuale (quella operante nelle fasi di appello e cassazione), meglio ridefinita come “causa di improcedibilità”, possa mai fungere da architrave di sostegno dell’intero impianto penalistico financo di contenuto sanzionatorio? La “processualizzazione” di un istituto che nelle sue connotazioni originarie dovevasi porre nei termini della residualità, o meglio, quale norma di chiusura di un sistema comunque a grandi linee positivamente operativo, può configurarsi come proposta solutoria utile e definitiva, oppure è solo l’espressione dell’ennesimo fallimento dello Stato contestualizzato da un governo di unità nazionale incapace di superare le solite dinamiche corporativistiche che da sempre albergano in Parlamento? Le risposte sono chiaramente conseguenti alle riflessioni fin qui condotte e non sono sempre di agevole interpretazione neppure per l’interprete più acuto. Perchè se è vero, come è vero, che l’istituto della prescrizione ed il principio della ragionevole durata del processo si muovono su binari paralleli ma non comunicanti, tuttavia, è altrettanto vero che l’eventuale durata irragionevole di un processo debba e possa ammettere meccanismi compensatori senza tuttavia incidere sull’autonomia dei reciproci binari di intervento. In un contesto di tal fatta nasce, per l’appunto, l’equivoco sul quale, fino ad oggi, ogni tentativo di riforma è inciampato rovinosamente. Continua a difettare, nonostante Mario Draghi e nonostante Marta Cartabia, la volontà politica di intervenire con efficacia reale sulla specifica disciplina anche a prescindere dalle sollecitazioni in tal senso provenienti dall’Europa. Si insiste nel volere pretendere l’approvazione di questa riforma “sic et simpliciter”, in maniera acritica, solo ed unicamente per non “arrestare” la corsa al successo dell’attuale Presidente del Consiglio dei Ministri sul cui solo “accreditamento internazionale” continuiamo a voler fare affidamento solo per mascherare il vuoto istituzionale di un Paese divorato dalle sue stesse contraddizioni interne. Le forze politiche, ed il Movimento 5 Stelle prima di ogni altra, non sembrano affatto disposti a prestarsi a operazioni di circostanza. E questa sulla giustizia è evidentemente una battaglia che non possono concedersi il lusso di perdere, soprattutto in un momento così delicato per il futuro del “Partito”. L’ “assist”, inoltre, del Partito Democratico sul punto, ha un significato politico preciso, e vale a determinare uno spostamento a “sinistra” dell’equilibrio di governo che potrebbe addirittura mettere definitivamente all’angolo le forze di centro-destra, siccome fino ad ora votate a voler prestare acritica acquiescenza (se si esclude Giorgia Meloni) alle dinamiche di un “sistema politico” inconcludente ed ancora esistente nelle sue connotazioni più critiche. Il tempo oramai stringe, e l’obiettivo di approvare la riforma sulla giustizia entro la data del 23 luglio si fa sempre più evanescente. Prevarrà l’opportunismo politico, oppure trionferà l’esigenza di assicurare quella che tutti continuiamo a voler definire “giustizia giusta”?

Giuseppina Di Salvatore

(avvocato- Nuoro)

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