Mentre sullo scenario nazionale una intera classe politica approssimativa e qualunquista si preoccupa di prendere posizione, quando in un senso, quando nell’altro, e spesso in maniera contraddittoria, rispetto all’Afghanistan e agli Stati Uniti, Kabul, caduta nelle mani dei “Taliban”, si ritrova a fare i conti con una realtà del terrore e con un futuro del tutto incerto nel “se” e nel “quando”.

La progressiva affermazione dei cosiddetti “Taliban” era oltre modo prevedibile e sembra quasi inutile, oggi, piangere sul latte versato mostrando uno sdegno, oserei dire ipocrita, per la decisione, tutto sommato coraggiosa e in qualche modo “dovuta”, intrapresa e perseguita da Joe Biden. Potremmo quindi continuare a lasciarci andare a riflessioni retoriche, sterili nella loro inutilità, ma servirebbe a ben poco. Piuttosto, la controversa “questione afghana”, nella sua complessità evolutiva e interpretativa, ha contribuito ad evidenziare per un verso la radicale mancanza di un sistema europeo utile a gestire efficacemente l’arrivo dei profughi, per altro verso ha contribuito a sottolineare non solo la scarsa conoscenza, da parte nostra, delle criticità interne a quel Paese, ma anche la assoluta mancanza di progettualità nell’organizzazione delle misure di intervento e, per altro verso ancora, ha contribuito ad evidenziare l’ingenuità dell’Occidente tutto per non essere stato in grado di compiere previsioni utili sulla potenziale evoluzione politica dei “Taliban” e sulla individuazione, quanto meno sommaria, degli obiettivi da costoro perseguendi.

In buona sostanza, l’Occidente ha proceduto in loco, nel corso degli anni, sospinto da riflessioni fallaci sul piano strategico che hanno finito unicamente per alimentare pericolosi fraintendimenti di carattere geo-politico, sia sulla posizione della potenza Cinese rispetto alla situazione venutasi a creare in conseguenza dei fatti del 15 agosto, sia sulla strategia complessivamente ed accuratamente articolata predisposta dai “Taliban”. Tanto per cominciare, questi ultimi, contrariamente ad ogni aspettativa, appaiono convintamente intenzionati ad ottenere, anche attraverso la partecipazione a negoziati, un riconoscimento internazionale che legittimi, accettandolo, il loro operato e la loro persistenza sul territorio da ultimo “conquistato”. In secondo luogo, la Cina, nel suo autentico ruolo di mediatore diplomatico, diversamente da quanto in tanti propendono a ritenere, non è affatto interessata a portare avanti azioni espansionistiche di carattere territoriale tanto più, allorquando, per costante orientamento tattico, siffatta potenza abbia sempre preferito “soggiogare” economicamente i suoi diretti “competitor” creando, vieppiù, coi medesimi, delle vere e proprie relazioni di “amicizia” e di “interesse reciproco” finalizzato financo a garantire ai neo-nascendi partner, il controllo dei confini rispetto a taluni paesi limitrofi potenzialmente rivali, nonché il controllo su “gruppi” locali di dubbia collocazione ideologica, ed ancor di più, allorquando, abbiano bene compreso, i cinesi si intende, che comunque, a prescindere da “chi” o “cosa” governi a Kabul, il Paese, considerata la sua storia, non sarà mai a tutti gli effetti gestibile.

Tanto doverosamente chiarito, perlomeno dal mio punto di vista, resta da capire fino a che punto i “Taliban” possano essere seriamente intenzionati a perseguire nella nuova “Terra di Conquista” la pace e la stabilità interna. Il rischio che si tratti di posizionamenti strumentali è elevato, ma una Comunità Internazionale che voglia definirsi compiutamente tale, quanto meno sul piano del rispetto dei diritti umani, ben potrebbe pretendere l’apertura dei “corridoi umanitari” quale contro-partita necessaria rispetto al potenziale riconoscimento del nuovo assetto politico e governativo afghano. In realtà, l’errore di fondo, se in termini di errore vogliamo discorrere, risiede nell’esserci illusi di poter “trasferire” puramente e semplicemente la nostra concezione della “democrazia”, fondata sulla netta ed operosa distinzione tra “fede religiosa” e “diritto” (“a Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio”), all’interno di un Paese che non sembra conoscere e/o condividere siffatta impostazione.

L’Occidente, peraltro, ha voluto assumere un impegno, in qualche modo obbligato dopo i fatti di quel fatidico 11 settembre, senza disporre di un piano comportamentale finalizzato al perseguimento di obiettivi utilmente programmati ed in assenza di qualsivoglia strategia di “exit”, rimasta di fatto “pendente” nel tempo. Ma non per questo, io credo, ci si deve sentire legittimati a riversare la responsabilità di eventi in alcun modo evitabili solo sugli Usa i quali, in un primo momento, avevano voluto concentrare l’efficacia del proprio intervento, proprio sul controllo repressivo di al Qaeda, preoccupandosi unicamente in un secondo momento, delle necessarie operazioni di “nation building” nell’ambito delle quali, avrebbe dovuto essere l’Onu ad intervenire e non invece la Nato la quale, per la sua nota connotazione di “alleanza militare”, non avrebbe mai potuto disporre degli strumenti necessari a portare avanti la ricostruzione. In buona sostanza, e dicendolo altrimenti, l’impreparazione e l’improvvisazione della comunità occidentale nel suo complesso, e non solo quindi statunitense, che perdurano rovinosamente a tutt’oggi, ha condotto ad un utilizzo improprio, e per questo per nulla risolutivo, di una alleanza militare sia pure di alto spessore.

Nello scenario fin qui delineato a grandi linee duole, purtroppo, sottolineare che Roma (ma si intenda Mario Draghi e la sua disarticolata maggioranza di Governo) sembra voler portare avanti una azione politica difficile da comprendere, orientata a ricercare la collaborazione fattiva ed in qualche modo de-responsabilizzante dei potenziali partner mondiali più che ad assumere una posizione precisa e risoluta sul punto. Si tratta di una evidente debolezza sistemica interna al nostro Paese, sintomatica di una gravosa mancanza di coesione interna e di relazione e che potrà, al più, condurre alle solite dichiarazioni di intenti destinate a sopravvivere solo nell’iperuranio. Ho come l’impressione che ancora una volta, il nostro Paese stia perdendo l’occasione, considerata la sua collocazione geografica strategica, di farsi artefice di un interventismo gentile utile a garantirgli una leadership, anche economica, con il neo-nascendo Governo afghano, che la ponga in condizione di interloquire non solo con i “Taliban”, ma anche con la potenza cinese in continua ascesa. La ricostruzione afghana, ad oggi, poggia necessariamente sull’interesse e sull’attrattiva di carattere economico offerti dal Paese di nuova conquista, e da siffatta circostanza occorre far partire, e calibrare, ogni ulteriore, programma di intervento.

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato – Nuoro)

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