“La legge non è uguale per tutti. In Italia qualsiasi lavoratore che sbaglia paga, tranne i magistrati”. Ebbene. A prescindere dalla circostanza che una affermazione di tal fatta possa apparire, nei termini ristretti della astrazione concettuale, del tutto realistica ed effettivamente rappresentativa di una realtà contingibile, tuttavia così non è, perlomeno in assoluto, e coloro che abbiano voluto credere all’inversione in senso moderato e profondamente liberale di Matteo Salvini e della sua Lega hanno probabilmente peccato di ingenuità: i sei quesiti referendari depositati da quella stessa Lega, sempre “padana” e sempre “oltranzista”, e dal Partito Radicale (responsabilità civile dei magistrati; separazione delle carriere tra magistratura requirente e magistratura giudicante; limitazione alla custodia cautelare; abrogazione della legge Severino; abolizione dell’obbligo di raccolta delle firme per i magistrati che vogliano candidarsi al Csm; diritto di voto per i membri non togati nei consigli giudiziari), di cui ben quattro concernono l’ordinamento giudiziario, uno la custodia cautelare, un altro ancora il regime delle cariche elettive e di governo, ma nessuno, si badi bene, il nucleo individualizzante della giustizia “vissuta”, ossia quello che viene quotidianamente deciso nelle aule di Tribunale, per un verso, sono l’espressione limpida della sintesi di un “populismo giudiziario” concepito in rapporto all’ideologia, sempre imperante, di un uso politico delle tematiche legate ai temi della criminalità secondo logiche dettate più dalla ricerca di consenso popolare che da reali esigenze di intervento e, per altro verso, in alcun modo sembrano incidere in senso migliorativo sulla sfera privata del cittadino quanto, piuttosto, unicamente, quanto paradossalmente, sul sistema dei rapporti di forza tra “potere politico” e “potere giudiziario” al solo fine di ricalibrarlo in senso riduttivo. Specie in un momento storico, quale quello corrente, nell’ambito del quale la vertiginosa crescita del potere dei giudici in campo politico è stata favorita non solo dalla inadeguatezza del sistema politico nel dotarsi di una precisa regolamentazione, ma anche dall’altrettanto colpevole incapacità di quello stesso sistema di rispondere alle aspettative sempre più impellenti di una società gravemente compromessa sul piano valoriale prima ancora che su quello economico e sociale.

In tale contesto, Matteo Salvini, a tutt’oggi, e malgrado l’adesione, apparentemente “incondizionata” ma in realtà meticolosamente concordata, al Governo di Unità Nazionale, riesce a farsi ostinato interprete di quel particolare atteggiamento del sistema politico che ancora sembra prediligere gli obiettivi di immediato consenso elettorale piuttosto che quelli dell’efficacia e della utilità delle politiche perseguite, anche e soprattutto a livello giudiziario. Se così, dunque, sembrano stare le cose, quale può essere mai la finalità cui, attraverso un “referendum” tutto sommato inutile sul piano degli effetti pratici, guardano, e al cui perseguimento ambiscono, le forze politiche proponenti? È presto detto. Dinanzi ad un interrogativo di questa consistenza, la risposta non può che apparire in tutta la sua consequenzialità, e non può che concentrare il proprio nucleo tematico sul rapporto tra l’ideale “populista”, mai rinnegato, e il contesto “giudiziario” di riferimento.

Intanto, perché l’operato della magistratura, da diversi anni a questa parte, è apparso sempre e costantemente caratterizzato dall’ingerenza, più o meno motivata e/o necessaria, con le politiche legislative di un esecutivo fondamentalmente “populista” poco incline a rinnegare questa sua matrice identitaria e qualificante. Quindi, perché i “leader populisti”, e il segretario della Lega è sempre apparso per essere tale, fondano non solo la loro legittimazione, ma anche la radice qualificante del proprio agire nella loro acquisita veste di “rappresentanti” eletti della “volontà” del popolo, sicché in forza e in ragione di questa investitura manifestano tutta la loro contrarietà ai limiti e ai contrappesi tipici di uno Stato democratico di diritto e di diritti di cui la magistratura, tutto sommato, e malgrado talune vicissitudini poco edificanti, si è sempre fatta garante privilegiata. Infine, perché tale stato di cose, ha, con il trascorrere del tempo, favorito l’affermarsi di una magistratura progressista di stampo democratico che, financo nella sua stessa connotazione definitoria e per il suo proporsi quale “strumento” di dialogo con il cittadino capace di riflettere l’attenzione sulle istanze popolari inascoltate sul piano del sistema politico, ha in qualche maniera contribuito a scalzare quel “populismo dualistico” ambivalente e atematico (da ultimo, quello della Lega da una parte, e quello del Movimento 5 Stelle dall’altra) che ha fino ad oggi identificato un certo modo di condurre l’azione politica astraendola su un comodo piano di autoreferenzialità difensiva necessitata dall’inconsistenza dei suoi effetti e che ha condotto all’affermazione del Governo Draghi quale “rimedio” peggiore del “male” per non essere stato capace (quel medesimo Governo si intenda) di estirparlo quanto, piuttosto, e paradossalmente, per averlo acquisito quale suo fondamento legittimante.

Se così non fosse stato, infatti, ed è quasi ozioso doverlo sottolineare, oggi non avremmo un esecutivo di unità nazionale. Questo ordine di considerazioni, complessivamente considerate, pertanto, mi inducono a ritenere che l’iniziativa referendaria portata avanti da Lega e Partito Radicale sia solamente uno dei soliti meccanismi strumentali rispetto ad una “propaganda” vuota necessitata dall’esigenza di conservare una posizione di protagonismo oramai perduto a cagione dell’incalzante procedere di Giorgia Meloni la quale, dal canto suo, e passo dopo passo, ha sempre saputo distinguersi rispetto a dinamiche di banale e opportunistico rilievo “consensualistico” di circostanza, soprattutto allorquando, come sembra essere nel caso in esame, l’utilizzo demagogico di tematiche legate al sistema giustizia quale molla utile ad alimentare la “paura” sulla cui persistenza amplificare il proprio consenso elettorale sembra ancora costituire l’unico argomento utile a mascherare la assoluta mancanza di progettualità politica. Siamo ancora nel bel mezzo del guado, e continuando di questo passo sarà davvero difficile uscirne.

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato – Nuoro)

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