Il 14 aprile ultimo scorso, come tutti ricorderemo, sulla scorta della premessa inerente l’“evolversi della situazione epidemiologica”, il “carattere particolarmente diffuso dell’epidemia”, e l’“incremento dei casi sul territorio nazionale”, sono entrate in vigore le ulteriori misure di contrasto al Covid -19 contemplate dal Premier nel suo ennesimo Dpcm. Proroga del confinamento fino al prossimo 3 maggio, riapertura di svariate attività produttive a far data dal 14 aprile, possibilità per i vari Governatori di Regione di adottare, con proprie specifiche ordinanze, misure restrittive più rigide solo nell’ipotesi di aggravamento della situazione epidemiologica (pur nella costante prevalenza dei decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri), ed infine, conferma per la applicazione di “misure di contenimento più restrittive adottate dalle Regioni, anche d’intesa con il Ministro della salute, relativamente a specifiche aree del territorio regionale”, sembrano apparire come gli aspetti più critici e rilevanti dell’intero provvedimento stante la Babele, a correnti alternate, delle misure conseguenti in parte restrittive ed in parte permissive.

Anche a voler prescindere dalla singolarità, e/o opportunità, di un documento che ribadisce, in chiave legittimante, la possibilità, già espressa col decreto legge del 25 marzo, per i vari governi territoriali, di assumere provvedimenti maggiormente stringenti sulla base di un criterio completamente rimesso all’interpretazione discrezionale degli interessati, quale appunto l’aggravamento della situazione epidemiologica, non sarà forse superfluo rilevare come, in effetti, il perseverare nell’utilizzo di una tecnica redazionale caratterizzata da continui richiami, in funzione integrativa ed interpretativa, a precedenti provvedimenti, e l’assenso espresso, in funzione chiaramente sanante, prestato a potenziali, o già esistenti, diverse disposizioni territoriali, si traducano non solo in un incomprensibile appesantimento del contesto normativo del tutto inidoneo, in un momento in cui la chiarezza è essa stessa sostanza, ad essere recepito con immediatezza dagli utenti finali, ossia i cittadini, ma anche in una chiara strategia politica di progressiva deresponsabilizzazione dello Stato Centrale, fino ad oggi piuttosto incerto nel gestire in maniera univoca ed unitaria l’imprevisto pandemico, e contestuale più incisiva responsabilizzazione degli apparati regionali, che si ritrovano ad essere, nel bene e nel male, e ciascuno con le proprie diversissime contingenze territoriali, economiche, strutturali e gestionali, direttamente coinvolti, in chiave difensiva, sul piano decisionale. Sebbene sotto il profilo giuridico nessuna questione possa insorgere al proposito, soprattutto laddove si considerino le disposizioni di cui all’art. 117, 3° co. e 120, 2° co., Cost. nonché le disposizioni di cui al D.lgs. n. 1/2018 (inerente i poteri del Premier nell’adozione di Ordinanze in materia di protezione della salute pubblica anche mediante il coinvolgimento dei governi regionali), tuttavia, non ci si può esimere dall’esprimere talune perplessità.

Questa netta differenziazione gestionale è davvero in grado di riflettere, sul piano pratico, gli effetti sperati, oppure contribuirà a rimarcare la disparità, anche sul piano sociale, delle singole realtà locali e dei mezzi a loro disposizione? Questa forma di declinazione differenziata della democrazia imperniata sul principio di “vicinanza”, forse comprensibile nella situazione specifica, ma non a mio parere, in condizioni di normalità, può assicurare la necessità di garantire l’imprescindibile bilanciamento con l’altrettanto fondamentale esigenza di uniformità dell’ordinamento nel suo complesso? Questa mescolanza di competenza tra Stato e Autonomie Territoriali, accentuata dalla gestione pandemica, ha inciso, ed in qualche modo rafforzato, il dialogo tra l’apparato centrale e quello periferico, oppure ha contribuito ad eroderlo a tutto discapito del principio di unità? E soprattutto, la differenziazione gestionale, specie sul piano sanitario, è idonea ad intaccare il sacrosanto diritto dei cittadini alla parità di trattamento? Le risposte possono essere variamente e positivamente articolate. Intanto, perché in una realtà statale non solo già caratterizzata dal progressivo consolidamento di ingenti disuguaglianze economiche territoriali (a cui ha quasi sempre fatto da contraltare una innegabile debolezza dell’apparato centrale), ma che, per giunta, dopo il 14 aprile ha iniziato a muoversi a correnti alternate, forse si sarebbero dovute evitare sia pur coraggiose iniziative autonomistiche di ripresa di attività potenzialmente idonee a vanificare il contenimento del contagio (che certo non conosce confini regionali) in considerazione della linea dura, a torto o a ragione, tenuta da altre realtà locali: onde evitare errori di valutazione, si sarebbe dovuta seguire sul punto una linea comune a livello nazionale. Quindi, perché, lungi dal voler cadere in sterili semplificazioni, al fine di favorire un dialogo costante tra i vari livelli di governo del territorio, in una situazione emergenziale, e non solo, la questione dovrebbe essere non tanto la disputa tra centralismo e regionalismo, e/o la prevalenza dell’uno o dell’altro, quanto piuttosto la capacità di coordinamento tra i due differenti piani gestionali onde evitare detrimenti disarmonie deliberative. Infine, perché, la pandemia, sembra aver rivelato, salvo rare eccezioni, l’inadeguatezza dei sistemi sanitari regionali nel rispondere alla crescente domanda di assistenza dei cittadini, facendo tornare in auge l’idea, forse mai sopita, del ritorno ad un sistema sanitario nazionale idoneo, quantomeno, a garantire la parità di trattamento tra la popolazione.

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato - Nuoro)
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