Riforma della giustizia: la gatta frettolosa ha fatto i gattini ciechi
La riforma Cartabia, tanto pomposamente annunciata, pessimo compromesso al ribasso
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“La gatta frettolosa ha fatto i gattini ciechi” e, considerate le premesse teleologiche, come pure lo spirito, volutamente acritico, che ha accompagnato l’elaborazione della riforma, altrimenti non avrebbe potuto essere. Giovedì 8 luglio 2021 il Consiglio dei Ministri, infatti, ha approvato all’unanimità gli emendamenti governativi al disegno di legge recante “delega al Governo per l’efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso le Corti d’Appello”, proposti dal Ministro della Giustizia Marta Cartabia.
Ma, con buona verosimiglianza, non sembra essere stata “cosa buona e giusta” per la semplice quanto dirimente circostanza, che, così come articolata, quella riforma tanto scarsamente satisfattiva degli interessi reali coinvolti nelle dinamiche del processo penale, non solo sembra tradire l’inesperienza processuale sul piano pratico, quanto su quello dogmatico, dei suoi redattori, ma rischia seriamente, e di conseguenza, di non raggiungere lo scopo per il quale avrebbe dovuto, e dovrebbe ancora, essere preordinata: ovverosia, quello di porre rimedio alla situazione di gravissimo “squilibrio” decisionale venutasi a creare con il volgere degli anni all’interno dei nostri Tribunali.
In buona sostanza, la riforma Cartabia, tanto pomposamente annunciata quanto indebitamente “glorificata”, finisce con l’apparire come un pessimo “compromesso al ribasso” che per assecondare i “desiderata” ideologici di tutte le forze politiche facenti parte del Governo di Unità Nazionale, ha inevitabilmente “corrotto” i suoi stessi principi ispiratori. Stupisce, in particolare, l’ambiguità espressiva licenziata dalla Guardasigilli che sembra aver voluto accompagnare l’elaborazione del testo soprattutto al momento della predisposizione di quella che dovrebbe essere la “nuova” regola di giudizio la quale, sul piano degli intenti, dovrebbe fungere da caposaldo e da utile principio ispiratore idoneo a ricondurre ad unità l’intero impianto sistematico: gli imputati potranno essere rinviati a giudizio solamente allorquando il giudice ritenga che gli elementi raccolti siano tali da poter giustificare una “ragionevole previsione di condanna”.
Ebbene. Ammesso e non concesso che avessimo bisogno di Marta Cartabia per affermare l’ovvietà, anche a voler prescindere da qualsivoglia considerazione sul valore “generalistico” della scelta lessicale adottata, è chiaro che la propedeuticità del rinvio a giudizio al cosiddetto “fattore x”, rappresentato da un giudizio prognostico di “ragionevole previsione di condanna”, pone non poche perplessità interpretative siccome disegna, inevitabilmente, un criterio valutativo pericolosamente dicotomico che si riflette direttamente sul “libero convincimento” dell’organo decidente convertendolo in una sorta di “arbitrarietà” decisionale che non potrà che incidere, mortificandolo, sul principio di “presunzione di non colpevolezza” garantito e tutelato, finora, dall’articolo 27 della Costituzione.
Tanto più allorquando, come spesse volte ribadito dalla Corte di Legittimità, l’esercizio del “libero convincimento del giudice” (perché di questo si tratta) dovrebbe restare pur sempre condizionato al concreto raffronto degli elementi oggettivi come sussunti nelle more del giudizio di merito all’esito di un contraddittorio pieno che riconosca e legittimi, ai fini della potenziale pronuncia di condanna e/o della possibile assoluzione, solo “la prova” correttamente formatasi in dibattimento.
Ed ancor di più allorquando, appaia oltremodo necessario evitare la degenerazione del “principio del libero convincimento” in un mero “stato psicologico” di “arbitraria valutazione” degli elementi di indagine da parte del giudice incaricato, il quale, verosimilmente, potrebbe trovarsi costretto ad operare negli strettissimi margini interpretativi di un bivio a “vicoli ciechi” contrapposti confluenti, tutto sommato, in una analoga situazione di cosiddetta “denegata giustizia”: l’uno, gravemente pregiudizievole per lo stesso presunto indagato, siccome sfociante in una serie indefinita di rinvii a giudizio determinati dall’incertezza valutativa e dal timore di lasciare impunito un potenziale autore di reato; l’altro, siccome sfociante in altrettante archiviazioni, tutte giustificate da non meglio identificati parametri diagnostici da porre a sostegno della decisione, che avrebbe l’effetto contrario di mortificare, annullandoli in radice, i legittimi diritti delle persone offese dal reato.
Detto altrimenti, e con buona pace dell’attuale Ministro della Giustizia: posto che il processo penale si incardina con l’obiettivo ultimo di reprimere i reati e punire i colpevoli (in breve, per usare in maniera estensiva un hashtag di Matteo Salvini: “chi sbaglia paga”), tuttavia, e parimenti, è onere irrinunciabile dello Stato, chiamato ad esercitare siffatta funzione sociale di repressione, quello di assicurare una compagine di diritti indisponibili per tutti coloro che si ritroveranno, loro malgrado, coinvolti nel circuito giudiziario.
E pertanto, siccome è impensabile prospettare “ab initio” i possibili epiloghi di un giudizio di merito, come può anche solo trovare uno spazio residuale all’interno dell’impianto codicistico una “regola di giudizio”, quale quella attualmente voluta da Marta Cartabia, che affida all’incertezza interpretativa e agli “umori” del giudice di turno la sorte processuale dei “mal-capitati” cittadini? Quali sarebbero gli indici indefettibili di valutazione cui l’organo giudicante dovrebbe fare riferimento nel decidere la sussistenza o meno di una non meglio precisata “ragionevole previsione di condanna”? Quale sarebbe il “dubbio”, sia pure non espressamente richiamato ma evidentemente chiaramente sotto-inteso, idoneo a mettere in discussione, a conclusione di una indagine, una eventuale ipotesi accusatoria annullandone ogni pretesa di poter essere convalidata da una valutazione intervenuta all’esito della celebrazione di un dibattimento? Si può pensare verosimilmente di risolvere l’endemica lentezza del processo penale prescindendo totalmente, perché questo si coglie dalla lettura per sommi capi della riforma, dall’accertamento della verità nel processo, e dentro di esso, e/o prescindendo dal ragionamento probatorio direttamente scaturente dal giudizio di accertamento del fatto?
Tutti interrogativi destinati a restare irrisolti siccome gli autori di questa riforma paiono aver dimenticato che nel processo penale, accanto alle regole epistemologiche fissate per la corretta ricostruzione probatoria del fatto, andrebbero osservate, come di fatto vanno osservate, anche e soprattutto quelle regole di rango costituzionale, più volte ricordate, idonee a segnare i confini del “giudizio” giusto sulla base della emersa e conclamata “verità processuale”: la presunzione di innocenza dell’indagato/imputato; il rispetto del contraddittorio, il diritto alla confutazione. In poche parole: non si può pretendere di avallare un “non – sense” dogmatico assunto a “regola di giudizio”, e non si può parimenti pretendere di scindere l’ipotesi di ogni “ragionevole previsione di condanna” dalla celebrazione di un processo condotto sul piano della cosiddetta “parità delle armi” tra accusa e difesa. Vogliamo una giustizia giusta non un restyling frettoloso di circostanza predisposto solo per assolvere ad un onere impostoci a livello sovra-statale.
Giuseppina Di Salvatore
(Avvocato - Nuoro)