Quanto fragore per questo neonato Governo Meloni. E non si capisce neppure se l’esultanza e l’apparente ossequio internazionale siano dovuti al fatto che il Presidente del Consiglio dei Ministri sia una donna, e per giunta inserita in una coalizione di centrodestra, oppure al merito della neo-incaricata o, invece, e questo sembra maggiormente probabile, se siano dovute, quelle acclamazioni, al solo fatto che Giorgia Meloni, ad ogni buon conto, non potrà discostarsi dal solco già tracciato da Mario Draghi, ossia dal suo ingombrante predecessore. E se così davvero fosse, nihil novum sub sole?

Il che, tradotto, starebbe a significare: cosa avrebbero votato a fare i pochi italiani recatisi alle urne se si intendeva cambiare tutto per poi ritrovarsi ai nastri di partenza? Perché, se i presupposti della opposizione esercitata in Parlamento e quelli del periodo immediatamente precedente la campagna elettorale avevano quali capisaldi argomentazioni inerenti la necessità di disporre “blocchi navali” (siccome tale era la terminologia usata) come pure quella di tenere la linea dura verso una Europa rispetto alla quale gli indici di criticità si presentavano di intensità crescente siccome quasi concepita come “usurpatrice” (si conceda il termine ai soli fini espressivo-argomentativi) di sovranità nazionale, allora, forse, qualcosa sembrerebbe non tornare.

Si tratterebbe di conservare un atteggiamento coerente: certo difficile da condividere, ma quanto meno non si nutrirebbe l’impressione di aver voluto votare a destra per svegliarsi con un indirizzo politico di quasi sinistra.

Parliamo nei termini delle impressioni, è vero, e solo gli esiti di questa esperienza di governo potranno fare luce su meriti e demeriti di colei che viene definita come la prima donna italiana Presidente del Consiglio dei Ministri.

Quel che è certo, è che gli italiani non potrebbero tollerare di aver votato “A” per poi ritrovarsi con “B”. E, a volerla dire tutta, proprio quella “B”, ossia quella che appare come un’alternativa, parrebbe annunciarsi per essere determinante sulle sorti del neonato governo, destinato, forse, ad essere evanescente ed incerto per l’azione centrifuga e centripeta proveniente tanto dal centro nevralgico del proprio schieramento quanto dalla “periferia” sinistrorsa, ansiosa di capitalizzare, riconquistandoli per rimbalzo, i consensi momentaneamente perduti.

Intanto, perché una cosa è riuscire a vincere nel contesto di una tornata elettorale nel contesto della quale, il sapore del diverso e l’ansia dell’inedito di governo, sembra essere prevalso malgrado tutto, ossia malgrado ogni più solido e ragionevole motto dell’animo. Quindi perché Giorgia Meloni non dovrà soltanto preoccuparsi di attuare politiche di indirizzo valido ed efficaci, ma ancor prima, e a monte, dovrà provvedere, e purtroppo celermente, a ridefinire i contorni di una coalizione che ha oramai perduto le sue originarie connotazioni stilistico-espressive e le sue stesse dinamiche di articolazione interna per divenire un “grosso” e “confuso” calderone “in cerca d’autore” e alla prova di una leadership in rosa riconosciuta non proprio come tale siccome individuata e circoscritta in una connotazione di “genere” concepita come quasi come punizione di “contrappasso trasversale” in danno di un potere maschile e maschilista, e quindi pure potenzialmente incidente sulle dinamiche di quella che fu vera “sinistra” di governo. Infine, perché, proprio in quanto “nemesi”, il Governo Meloni sarà destinato a sopravvivere unicamente per il tempo utile al compiersi di quegli impegni necessari al funzionamento ordinato della macchina governativa: ossia, per intenderci, fino al prossimo mese di gennaio suppergiù, siccome tanto (poco) sarà sufficiente al popolo di coloro che furono votanti, e al resto degli scettici, per “leggere” concretamente e chiaramente, consistenza e cifra della “coerenza” meloniana, destinata forse, e ci sarebbe invero da augurarsi il contrario, ad infrangersi, con buona verosimiglianza, sugli scogli della realtà governativa. Tanto più allorquando, e curiosamente, gli endorsement più significativi ella li riceva proprio dai grandi pensatori di sinistra, attenti più che mai e più di sempre ai profili di salvaguardia dei diritti della persona e, ancor di più allorquando, proprio il Colle sia Vigile attento del percorso di governo, destinato ad essere supinamente atlantista ed europeista nella formula probabilmente “peggiore”.

Per farla breve, il vero problema di Giorgia Meloni resta il fatto che non potrà contare sul sostegno del Segretario della Lega, all’interno di un Ministero tutto sommato di facile conduzione e di alcuna responsabilità se in questi termini vogliamo metterla, e men che meno su quello di Silvio Berlusconi, grande escluso dalle sorti di un esecutivo che nel dare rilevanza al suo fido vice Antonio Tajani, in fondo infrange il vetro di cristallo degli antichi equilibri di squadra.

Saprà la nuova premier esprimere quelle doti di sintesi per districarsi tra le pretese degli alleati e le osservazioni pungenti di una opposizione ansiosa di essere coinvolta nelle dinamiche di governo? Purtroppo, qualunque cosa se ne voglia dire, Giorgia Meloni pare aver prevalso nel momento peggiore, in un momento cioè che più che farne emergere le capacità, contribuirà a segnare il suo possibile declino.

Sembrerebbe trattarsi di una storia già scritta: votata per non aver ancora mai governato, potrebbe governare e cadere per non poter esprimere le sue prerogative.

È fin troppo chiaro che la celerità delle operazioni di costruzione del neonato governo sia stata favorita dall’azione del Colle che, preso atto della volontà dei votanti, aveva fretta di garantire la prosecuzione armoniosa dell’amministrazione che fu di Mario Draghi.

Giuseppina Di Salvatore – Avvocato, Nuoro

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