Svendite, madri e uomini
di Nicola LeccaCagliari. Fine anni Ottanta. Un piccolo appartamento non lontano da piazza Giovanni XXIII.
Personaggi: un adolescente di tredici anni e sua madre.
Il figlio: «Mamma, lo sai che nella zona della Rumianca c'è un capannone dove vendono tutto a prezzi bassissimi? Caleidoscopi, trottole, zaini, astucci, evidenziatori giochi di società, biciclette, pupazzi e perfino tende da campeggio».
La madre: «Un capannone? Alla Ruminaca»?
Il figlio: «Sì, non è proprio un negozio, ma un luogo più speciale. Un compagno di classe mi ha detto che lì raccolgono tutta la merce dei negozianti che hanno fallito e la rivendono a prezzi incredibilmente bassi! Costa tutto pochissimo. Perché non andiamo anche noi»?
La madre resta in silenzio e pensa.
L'idea di lucrare sulle disgrazie altrui non le è mai piaciuta.
«Allora»?, la incalza il figlio, impaziente di accedere anche lui a quel Bengodi che il compagno di classe ha così ben sciorinato, provocando, in molti, invidia e desiderio.
La madre: «No. Noi in quel capannone non ci andremo».
Il figlio: «E perché»?
La madre: «Perché dietro a quella merce ci sono lacrime. C'è dolore. C'è il disastro di un fallimento. Sarebbe come trasformarsi in avvoltoi, che approfittano delle sventure. Noi siamo molto meglio di così, figlio mio: siamo persone per bene e non ci avvantaggiamo dal dolore altrui. Del resto mi pare che tu abbia abbastanza vestiti, giocattoli evidenziatori, pastelli a cera e compagnia cantante».
Il figlio: «Sì, ma…».
La madre: «Se davvero ti serve qualcos'altro non hai che da chiederlo».
Il ragazzino si chiude in stanza a riflettere su ciò che ha appena ascoltato e sente la sua parte impulsiva che si confronta con la ragione e con la moralità.
«Chissà, forse si diventa uomini anche così», appunterà quella stessa sera sul suo diario, prima di andare a dormire.