C agliari 1985. Ci troviamo in una scuola elementare per bambini ricchi. Uno di quegli istituti che apre le sue porte solo a chi è disposto a pagare una cospicua retta mensile.

La maestra è appena entrata in classe e sta riconsegnando a ciascun allievo il quaderno dei temi, l'ultimo dei quali è stato appena corretto e valutato. “Male”, “Bene”, “Bravo”, “Bravissimo”. L'umore dei bambini si modifica rapidamente in base al voto ricevuto.

Fra essi ce n'è uno che siede all'ultimo banco e nota che la parola “sopratutto” è stata corretta più volte a penna rossa con l'aggiunta di una “t”.

Una correzione che il computer di oggi fa in automatico. Figuriamoci le maestre di allora!

Di ritorno a casa, il bambino prende uno dei grandi volumi che compongono il dizionario enciclopedico Treccani, magnificamente rilegato e custode della verità sulla lingua italiana. Tutta la verità! Nient'altro che la verità!

Apre, ricerca e legge: “Soprattutto (meno comune sopratutto) - Avverbio.”

Meno comune, dunque. Ma ugualmente corretto anche con una sola “t”!

Ha soltanto dieci anni. Ma è già cocciuto. Soprattutto quando sa di avere ragione.

L'indomani, dunque, comunica la notizia alla maestra e chiede che il suo voto venga corretto.

A nessuna maestra piace essere contraddetta davanti a tutta la classe da un moccioso.

«Fila in castigo» - gli dice.

Da quel giorno il bambino continuerà a scrivere nei suoi temi “sopratutto” con una sola “t” perché la Treccani dice che è giusto. Ogni volta, con ira sempre maggiore, la maestra lo correggerà e lo metterà in castigo. Una volta perfino in un'aula vuota.

I genitori, appresa la notizia, pregheranno il loro figlio di uniformarsi. Di fare come dice la maestra.

Ma lui, ben sapendo di essere nel giusto, continuerà a non mollare.
© Riproduzione riservata