C agliari. Tanti anni fa. Ci troviamo in un liceo cittadino. In circolazione ci sono ancora le lire quando, a seguito di un fatto increscioso, si rende necessaria una speciale riunione alla quale partecipano diversi professori, la vicepreside, i rappresentanti di due diverse classi e altrettanti alunni del liceo - responsabili di aver umiliato un giovane ginnasiale, tirandolo su per i piedi e infilandogli la testa in un gabinetto.

Pare che, a compimento della bravata, sia stato pure tirato lo sciacquone. Intorno a un tavolo si parla. Si prova a dare un senso a ciò che senso non ha.

Fra i presenti c'è anche lui: la vittima del bullismo. Un ragazzino con il volto efebico, i capelli scuri, la carnagione bianchissima e gli occhi sorprendentemente chiari e pieni di vergogna. Ma perché? Perché ci si sente sempre a disagio dopo aver subito una violenza?

Testimonianze, scuse. Un giro d'opinioni. Fino a che viene proposta la sospensione per quei due ragazzi responsabili di aver superato la linea della decenza. Si vota per alzata di mano.

I rappresentanti di classe conoscono i due bulli, sono loro amici. Ma scelgono di punirli. A rischio di compromettere il loro rapporto personale. È una decisione difficile: che potrebbe fruttar loro l'epiteto di infami. O quello di eroi.

La sospensione viene confermata. Ed è severa: dura molti giorni.

Passano gli anni. Anzi, i decenni. Fino a che, per caso, uno dei rappresentanti di classe e uno dei bulli si incontrano. Non c'è più astio fra loro. Ma soltanto un abbraccio sincero.

«Hai fatto bene a votare contro di me. Per la sospensione. Non avevo confini. E mi sono stati indicati».

Diventare uomini significa anche questo. Sbagliare. Subire una punizione. Pentirsi. Ma, soprattutto, chiedere scusa. E questo, a suo tempo, fu fatto.
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