È l'ultimo autunno del Novecento quando uno studente della facoltà di Filosofia di Cagliari bussa alla porta dello scrittore Antonio Cossu. L'allievo e il maestro non si conoscono personalmente ma si sono già scritti e hanno chiacchierato a lungo al telefono. Il ragazzo ambisce a collaborare con la rivista di cultura “La grotta della vipera” che Antonio Cossu fondò più di vent'anni prima.

La porta si apre. L'appartamento cagliaritano dello scrittore lussurgese è semplice ma accogliente.

La sua voce profonda, inconfondibile, ha finalmente un volto. Rugoso, intenso: sul quale la vita ha scritto molte storie. Anche dolorose. Antonio Cossu è un gentiluomo. Stringe piano la mano a causa della malattia che affligge le sue ossa e presenta allo studente la moglie e la figlia.

Davanti al divano e alle poltrone, un tavolino già ospita tazze, teiera, biscotti e cucchiaini.

Si parla di viaggi, d'arte e di letteratura: degli inverni a Santu Lussurgiu e di quelli a Grenoble. Si ricorda l'importanza della lingua sarda: sempre più negletta e dimenticata.

Fin da subito il ragazzo si sente accolto, accettato. Chiede opinioni. Ottiene consigli.

Poco distanti, in una libreria, i romanzi di Antonio Cossu sfilano con orgoglio. Fra questi: “I figli di Pietro Paolo” del 1967, “Il riscatto” del 1969 e la relativa traduzione in lingua inglese di pochi anni più tardi.

«E questa è una sorpresa per te» dice lo scrittore lussurgese consegnando allo studente una copia della sua ultima raccolta di poesie intitolata “I monti dicono di restare” e stampata su carta pregiata dall'editore Giardini di Pisa.

Da più di 15 anni Antonio Cossu non c'è più. Lo studente - ora uomo - custodisce quel libro con rara cura. E ogni tanto, nostalgicamente lo sfoglia e legge:

“Su passadu est como in s'amentu / des logos nostros chi faghimus / a sa muda e pentzativos / in custa acradadorza furistera”.
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