S e non studierete finirete a raccogliere la pupù degli elefanti al circo»!

Con queste parole, la maestra di una scuola elementare cagliaritana soleva motivare - all'inizio degli anni Ottanta - i suoi allievi affinché eccellessero nella carriera scolastica e potessero quindi ambire a diventare medici, avvocati, notai o capitani d'industria.

«A me gli elefanti piacciono: e non mi dispiacerebbe occuparmi di loro viaggiando per il mondo insieme a un circo». Una risposta impertinente, che indispose la maestra, interdetta davanti al fatto che un mestiere tanto umile potesse suscitare ammirazione in un suo alunno. Ma perché? Perché un bambino di otto anni che ambisca a una vita da girovago deve essere costretto a percepire questo suo desiderio come una sconfitta? La scuola non dovrebbe avere il compito di incoraggiare le propensioni personali? Il lavoro nobilita l'uomo. Qualunque esso sia. Ed è un peccato che una classe di bambini sia cresciuta imparando che dei mestieri umili ci si deve vergognare.

Lavorare in un circo - quel luogo magico, quel tendone esageratamente colorato dove gli acrobati volteggiano nell'aria e le scimmiette baciano le guance degli spettatori - richiede impegno, passione, determinazione, disciplina e sacrificio. Non c'è nulla di male a vivere per offrire emozioni agli altri. Né, tantomeno, a raccogliere la pupù degli elefanti!

La vergogna di questo Paese, casomai, l'hanno fatta ben altre persone. Che l'onestà, l'integrità e la dignità fossero valori di gran lunga preferibili al prestigio sociale quella maestra dimenticò di sottolinearlo. Oggi, quei bambini d'un tempo hanno gli strumenti necessari per farsi un'idea propria. All'epoca assorbivano incondizionatamente l'obbrobrio di quell'insegnamento: e la relativa convinzione che guadagnarsi da vivere esercitando il più umile dei mestieri fosse una vergogna, che in tutti i modi e ad ogni costo si sarebbe dovuta evitare.
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