V ia Bosa, non lontano da piazza Garibaldi. Primavera del 1988. Collegio della Missione. «Alzi la mano chi sa cos'è la gibigianna», dice il professor Francesco Rana, un sacerdote originario di Bitti che, ormai da tempo, insegna Italiano ai ragazzi delle scuole medie, oltre a suonare l'organo e a dirigere il coro nella chiesa di piazza San Michele. Silenzio. Gli alunni si guardano smarriti, in cerca di un'illuminazione o di un suggerimento.

Cosa mai potrà essere la gibigianna? Che strana parola! Sembrai il nome di un personaggio de “Il signore degli anelli”, il romanzo di Tolkien che, di tanto in tanto, padre Rana legge ad alta voce, in classe, per la gioia dei suoi studenti.

«Allora?», riprende il sacerdote sorridendo dell'adesivo a forma di raganella appiccicato, di nascosto, sul suo registro di classe da un alunno birbantello.

Ma il silenzio continua.

«Beh! Se non sapete cos'è la gibigianna chiedete in casa o, magari, cercatelo sul dizionario».

Google non c'era.

Di ritorno a casa, gli alunni interrogano mamma e papà: ma la maggior parte dei genitori non ha la minima idea di cosa significhi quella parola misteriosa, mutuata dal dialetto milanese.

Allora i ragazzini si rivolgono al dizionario: lo Zingarelli, il Devoto-Oli e perfino la Treccani.

A mistero svelato, come d'abitudine, ciascuno di loro prende in mano la rubrica telefonica delle parole nuove: la apre alla lettera G e scrive “Gibigianna - Balenìo di luce riflesso su una superficie da uno specchio, da un vetro, da un liquido. Per esempio: Si divertiva a farmi la gibigianna sugli occhi con uno specchietto ”.

«Padre Rana, perché ci insegna ogni giorno una parola nuova?»

«Perché conoscere la lingua italiana significa poter parlare con agilità e, dunque, avere il potere di dire con esattezza ciò che si ha in mente, in maniera limpida e affilata».
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