D opo una maratona di cinque giorni (e notti) di discussione, finalmente l'Europa ha approvato il Recovery Plan da 750 miliardi, strettamente legato al prossimo bilancio pluriennale dell'Ue 2021-2027 da 1.074,3 miliardi.

Qualche agenzia di stampa ha titolato che, dopo una trattativa “umiliante”, i vincitori sarebbero “loro”, cioè i Paesi cosiddetti frugali (Olanda, Danimarca, Svezia, Austria e, ultima arrivata, la Finlandia), mentre tra i vinti ci sarebbe l'Italia. Ma non è assolutamente così.

L'Italia si porta a casa 208,8 miliardi, di cui 81,4 di trasferimenti (solo 400 milioni in meno rispetto alla proposta della Commissione) e 127,4 di prestiti (rispetto a 90,9). È curioso notare che i maggiori prestiti corrispondono circa ai fondi Mes messi a disposizione dell'Italia, il che offrirebbe una giustificazione a Conte per non accedere a questi ultimi, tacitando così i Grillini che al Mes erano ideologicamente contrari. Tuttavia, il Pd continua, giustamente, a difendere anche il ricorso al Mes per finanziare un piano sanitario straordinario.

Per poter accedere ai fondi Ue, tuttavia, l'Italia, così come gli altri Stati membri, dovrà presentare a ottobre alla Commissione un piano nazionale di ripresa e resilienza, che spiegherà nel dettaglio come si intendono usare i fondi. Sarà il Consiglio, su indicazione della Commissione, a decidere, a maggioranza qualificata, se approvare il piano o chiederne modifiche.

I n realtà, tutti i Paesi Ue, sia quelli nordici definiti “frugali”, sia quelli del Centro-Sud difensori della “solidarietà”, possono a buon diritto dichiararsi vincitori. Questo perché si sono riconosciuti e trovati d'accordo sull'ultima proposta di mediazione del presidente Charles Michel. Il Fondo resta di 750 miliardi, così come proposto dalla Commissione su iniziativa di Germania e Francia, e col sostegno dell'Italia e degli altri Paesi del Sud.

Per convincere i Paesi “frugali” è stato ridotto il rapporto tra trasferimenti e prestiti a favore di questi ultimi, ma il risultato complessivo è giudicato soddisfacente per tutti, segno che il presidente Michel ha saputo mediare bene tra le posizioni inizialmente divergenti.

Perciò, possiamo dire con soddisfazione che l'Europa c'è e, sia pure lentamente, ha compiuto un altro passo importante verso l'ulteriore integrazione politica.

Sembrerebbe, a prima vista, che Germania e Francia abbiano dovuto ridimensionare l'ammontare degli aiuti previsti, ma in realtà esse sono le vere vincitrici, non solo perché hanno imposto a tutti i Paesi Ue un salto verso una maggiore integrazione, ma anche perché hanno fatto accettare a tutti la possibilità che la Commissione possa emettere debito comune garantito dal bilancio Ue. L'emissione di debito comune europeo si configura infatti come una svolta storica dell'Europa, che attua in concreto il principio di solidarietà tra i Paesi europei.

Infine, il rispetto delle condizionalità viene ribadito con forza nell'accordo. Ciò significa che le erogazioni vengono condizionate a impegni precisi, anche dei tempi necessari al conseguimento dei risultati indicati dagli stessi Stati. Non vale cioè la regola del “dateci i soldi e su come spenderli decidiamo noi”, ma vale che ognuno spenda sulla base di programmi approvati dalla Commissione e monitorati da quest'ultima in tutta la fase della loro esecuzione.

L'accordo prevede infatti che i piani degli Stati saranno approvati a maggioranza qualificata dall'Ecofin, su proposta della Commissione, e non all'unanimità come voleva l'Olanda. Tuttavia, ogni Paese potrà chiedere l'intervento del Consiglio per bloccare gli aiuti dati a un altro Paese se riterrà che c'è un allontanamento nell'attuazione delle riforme dagli obiettivi prestabiliti.

Qualche politico italiano potrà storcere il naso gridando all'intromissione dell'Europa nelle decisioni politiche interne di uno Stato, ma dobbiamo ringraziare il premier olandese Mark Rutte se ciò eviterà l'uso dei fondi europei per finanziare programmi di spesa con cui comprare il consenso elettorale alle successive elezioni.

BENIAMINO MORO

DOCENTE DI ECONOMIA POLITICA

UNIVERSITÀ DI CAGLIARI
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