D opo settant'anni di autonomia, l'assemblea regionale si è decisa a varare una legge sulla valorizzazione della lingua sarda e delle altre lingue minoritarie. L'intento è meritorio, meno la sua implementazione, affidata ad una Consulta di 34 persone, nominate dalla politica, che dovrà definire lo standard linguistico: un'opera improba senza un tempo prefissato, che quindi verosimilmente languirà all'infinito.

Anche altre politiche linguistiche, in passato, non hanno avuto esiti concreti: non la Lingua sarda comune (LSC), non molte decine di progetti, variamente intitolati e finanziati dalla Regione Sardegna. Risultato: il sardo sta lentamente evaporando e coloro che rivendicano urlanti la propria identità sono i primi a perderla, dimenticandosi, ogni giorno che passa, come verbalizzarla.

Eppure non mancano i modelli virtuosi cui guardare. I norvegesi, ad esempio, hanno raggiunto una reale parificazione linguistica, consentendo agli studenti di apprendere sia in Nynorsk (nuovo norvegese) che in Bokmål (norvegese letterario), con un'offerta e materiali didattici in ambo le lingue. I catalani fanno altrettanto. La loro è una lingua comunitaria che deborda i confini politici e amministrativi della omonima regione. La comunità catalana si estende infatti, tra gli altri, alla Francia (Pirenei orientali), ad Andorra e proprio alla Sardegna (Alghero). Il catalano è lingua ufficiale: lo prevedeva già l'articolo 3 dello Statuto del 1979, affiancandolo allo spagnolo: lingua inserita in Costituzione. (...)

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