Con la formazione del Regno di Italia (1861) ed il compimento dell’Unità nazionale (Roma capitale nel 1870), la produzione dell’arte operistica nella società e nella cultura del nostro Paese muta profondamente. Se nel Risorgimento il melodramma era stato per le Èlites italiane il “surrogato di una vita sognata e non vissuta” (Massimo Mila), cioè la proiezione nell’immaginario collettivo di sentimenti e comportamenti preclusi all’azione, nello Stato nazionale tra Otto e Novecento l’opera diventa la cornice spettacolare di un ostentato desiderio di modernità culturale. L’ansia di rinnovamento che pervade l’Italia post-unitaria si manifesta soprattutto in un’apertura di credito molto massiccia nei confronti della cultura d’oltralpe anche se il concetto di “verismo musicale”, che si afferma nel teatro d’opera italiano, aderisce solo superficialmente al verismo letterario; i compositori veristi, infatti, non elaborano un linguaggio musicale veramente realistico e l’ambientazione popolare dei soggetti drammatici, che si alterna al gusto per l’ambientazione esotica o storica, non attinge quasi mai a substrati melodici di tipo folclorico.

è in questo contesto che il 17 maggio 1890 al Teatro Costanzi di Roma, debutta Cavalleria rusticana di Mascagni. L’atto unico di Giovanni Targioni Tozzetti e Guido Menasci, tratto dall’omonima novella di Giovanni Verga, riscuote sin dalla prima esecuzione uno straordinario successo di pubblico e di critica. In un’epoca ancora dominata dai lunghi drammi wagneriani, Cavalleria rusticana è concepita in un atto unico ed è perciò destinata a prospettare nuove e più moderne soluzioni drammatiche con la sua grande concisione e l’ammirevole sinteticità espressiva. Un’altra scelta determinante per la riuscita dell’opera mascagnana è anche quella che riguarda la struttura generale dell’opera, elaborata a numeri chiusi secondo il più tipico schema del melodramma italiano. Ma Mascagni, pur muovendosi nel solco della tradizione, riesce ad intrecciare perfettamente struttura narrativa e azione, costruendo un meccanismo teatrale assolutamente perfetto.

Il successo folgorante di Cavalleria rusticana segna l’avvio di una nuova fase operistica. Cavalleria è rappresentata, nei due anni successivi alla prima, in quasi tutta la provincia italiana come nelle più importanti città del mondo: Stoccolma, Madrid, Budapest, Amburgo, Praga, Buenos Aires, Mosca, Vienna, Londra, Bucarest, Berlino, Riga, Lubiana, Parigi, Filadelfia, Chicago, Boston, Rio de Janeiro, New York, Città del Messico. L’ambientazione rurale dell’opera – una Sicilia contemporanea e al tempo stesso ancestrale – costituisce la rivincita della fine del secolo: con sempre maggior irruenza, e in modo assolutamente ineluttabile, quelle che fino a quel momento erano considerate le periferie musicali sottraevano all’Europa di Vienna, Berlino e Parigi la loro secolare centralità.

Il problema musicale che, con Cavalleria, si pone urgentemente negli anni a cavallo tra Otto e Novecento, è quello di ricomporre la vocalità che proprio l’opera tardo-ottocentesca aveva messo in crisi. Un’operazione di ricostruzione realizzata proprio da autori come Mascagni, Leoncavallo, Cilea, Giordano che, spesso maltrattati dalla critica, in realtà possedevano una spiccata dimensione del canto popolare. Su un impianto melodrammatico in cui è essenziale la funzione dell’orchestra per integrare il significato scenico della melodia cantata, il movimento verista riesce dunque a re-inventare una vocalità autenticamente “italiana”, portando in scena ambienti e personaggi di estrazione popolaresca in cui trovano posto, con le esplosioni passionali d’amore e di gelosia, anche i rudi alterchi tra i personaggi, le minacce, le imprecazioni, le invettive. Un atteggiamento complessivo che porta abbastanza spesso il canto verista all’imitazione più o meno diretta degli accenti e delle inflessioni del linguaggio parlato.

L’atto unico di Mascagni fa nascere in breve tempo un vero e proprio filone di teatro musicale che, per la struttura drammaturgica e più ancora per l’ambientazione delle vicende e per la natura dei personaggi, vi si richiamava esplicitamente. In effetti Cavalleria rusticana, e quindi di riflesso il teatro d’opera, riusciva ad interpretare perfettamente – come osserva Guido Salvetti – il clima culturale di quegli anni attraverso alcune fondamentali posizioni ideologiche: riscoperta di immediatezza, sincerità, vitalità profonda dei sentimenti, ovvero di valori legati alla provincia rurale; l’esaltazione della più pura italianità nella continuità della tradizione; il ritrovamento di un concetto di popolo dal quale fosse bandito ogni sospetto di lotta di classe.

Nel giro di pochi anni, numerosi lavori tentano di replicare il suo successo: Pagliacci (1892) di Ruggero Leoncavallo, Mala vita (1892) e Andrea Chènier (1896) di Umberto Giordano, La Wally (1892) di Alfredo Catalani, Tilda (1892), L’arlesiana (1897) e Adriana Lecouvreur (1902) di Francesco Cilea, per non parlare della Manon Lescaut (1893) e de La bohème (1896), che consacrano il successo di Giacomo Puccini. Dalla letteratura, tutte queste opere traggono stimoli importanti ed un’ impronta marcatamente realista, un’immediatezza ed un’attualità che trovano il pubblico attento e particolarmente ricettivo. Nel suo lucido L’opera dei bassifondi che fa luce sul fenomeno dell’operismo “plebeo” presente nel teatro musicale italiano fino agli anni Trenta, Stefano Scardovi rintraccia ben ottantaquattro titoli rappresentati tra il 1890 e il 1934, tutti inquadrabili all’interno del filone teatrale nato dal successo di Cavalleria rusticana. Questi melodrammi “plebei” presentano dei tratti comuni, come la ricorrente ambientazione meridionale e insulare (da cui scaturisce una connotazione di tipo folclorico ottenuta con l’inserimento di brani nelle lingue locali), la citazione di usi e costumi e il tentativo di colorare musicalmente in senso etnico la vicenda.

La Sardegna non fa eccezione e Alghero, Osilo, Fonni, la Gallura e l’Ogliastra diventano luoghi in cui vengono ambientati i nuovi drammi. Per citarne solo alcuni: La bella d’Alghero di Giulio Fara Musio (eseguita per la prima volta a Pesaro nel 1892), Tristi nozze di Ugo Dallanoce (Venezia, 1893), Vendetta sarda di Emidio Cellini (Napoli, 1895), Rosedda di Nino Alassio (Genova, 1897) e Rosella di Priamo Gallisay (Varese, 1897), su libretto di Pasquale Dessanay tratto dal romanzo Don Zua, che il pittore Antonio Ballero aveva pubblicato tre anni prima a Sassari. Grazia Deledda, pubblicò anche una recensione dell’opera per il Fanfulla della Domenica del 20 maggio del 1894, illustrandone gli aspetti più interessanti. Nei primi anni del Novecento videro la luce almeno altri sei titoli con sfondo sardo: In Barbagia di Nino Alberti e Maricca di Marco Falgheri (andate in scena rispettivamente a Roma e a Milano nel 1902), Fior di Sardegna di Attico Bernabini, Giovanni Gallurese di Italo Montemezzi e Jana di M. Renato Virgilio (eseguite per la prima volta a Roma, Torino e Milano nel 1905) Iglesias o Cuore sardo di Vittorio Baravalle (che debutta a Torino nel 1907).

Con l’avvio del nuovo secolo la moda del melodramma “plebeo” imbocca la strada di un inarrestabile declino, anche se fino alla metà degli anni Trenta si mettono in scena melodrammi che ripropongono la formula fortunata. Un caso del tutto particolare, per certi aspetti simile a quello della trasposizione melodrammatica del romanzo Don Zua di Ballero, è quello del “dramma pastorale” La Grazia. La vicenda è tratta una novella di Grazia Deledda, Di notte, pubblicata nella raccolta deleddiana Racconti Sardi del 1894, la cui trasposizione librettistica venne realizzata dalla scrittrice in collaborazione con Claudio Guastalla e Vincenzo Michetti, poi musicata dallo stesso Michetti e pubblicata dalla casa editrice Ricordi di Milano.

Vincenzo Michetti fu un tipico rappresentante della cultura musicale italiana a cavallo tra il XIX ed il XX secolo, e in particolare di quel variegato mondo dei musicisti minori attivi nelle istituzioni musicali delle grandi città e dei piccoli centri di provincia. Nato a Pesaro l’8 febbraio del 1878, aveva studiato organo con Antonio Cicognani, proseguendo successivamente gli studi di armonia, contrappunto e composizione con Pietro Mascagni nel Liceo musicale “Rossini” della sua città. In seguito si trasferì a Roma, dove visse insegnando per quasi tutta la vita; morì a Pesaro nel 1956. Seguace di Mascagni, Michetti aveva esordito il 6 marzo del 1918 al Teatro Costanzi di Roma con Maria di Magdala, su libretto proprio, ottenendo un esito molto soddisfacente. Qualche anno più tardi si accostò al teatro musicale di stampo verista con La Grazia. Proseguì con la rielaborazione della prima opera, poi portata in scena alla Scala di Milano nel 1928, col titolo La Maddalena. Nella nuova versione però l’opera non convinse il pubblico e la critica; nonostante altri due lavori per le scene (La vagabonda e L’aurora più bella del 1931) e diversi poemi sinfonici e liriche su testi di Carducci e D’Annunzio, Michetti si congedò assai presto dalla professione compositiva.

La genesi de La Grazia non fu facile. Dall’ampio carteggio che intercorse tra Vincenzo Michetti e la Casa Ricordi traspare una sostanziale difficoltà dell’autore ad ottenere la dovuta attenzione sia dal suo editore ed agente che dall’impresa che gli ha commissionato l’opera, la gestione del Teatro Costanzi di Roma, palcoscenico privilegiato di molte prime esecuzioni dell’epoca. I contatti di Vincenzo Michetti con Grazia Deledda e il di lei marito Palmerio Madesani per la definizione del piano di lavoro che porterà alla realizzazione musicale de La Grazia cominciano nel novembre del 1919; la scrittrice è molto interessata al progetto e si mostra da subito disponibile a collaborare con Michetti. Dopo più di due anni di lavoro, nel febbraio del 1922 il compositore inizia a premere su Casa Ricordi perché a un mese dalla scadenza prevista l’impresa del Costanzi non ha ancora organizzato alcuna prova de La Grazia, non ne ha commissionato i costumi e ha fatto addirittura interrompere il lavoro dello scenografo. La vigorosa protesta di Michetti non sortisce però alcun effetto: l’opera, che doveva essere inserita nel cartellone del Costanzi nella primavera del 1922, andrà in scena solo l’anno dopo.

Michetti approfitta dello slittamento dei tempi di realizzazione per inserirsi con decisione nella valutazione degli esecutori che dovranno interpretare il suo lavoro. Mentre approva senza riserve la scelta di affidare la direzione dell’orchestra alla bacchetta esperta di Vittorio Gui, interviene con risolutezza sulla scelta di Carmen Melis, da subito candidata a ricoprire il ruolo di Simona, principale figura femminile dell’opera. Michetti è severissimo nei confronti della celebre cantante e ne critica l’estensione vocale e il timbro, secondo lui assolutamente inadatti alla parte destinata all’artista. L’atteggiamento di Michetti imbarazza non poco l’editore e la stessa organizzazione del teatro, che non sa come venire a capo della vicenda senza provocare un incidente diplomatico. Per fortuna la Melis si fa da parte adducendo altri impegni, e Michetti può tentare di imporre i cantanti che ritiene più adatti, senza tuttavia riuscire nel suo intento.

La Grazia andò in scena per la prima volta al Teatro Costanzi di Roma il 31 marzo del 1923. La rappresentazione, che si avvaleva di un allestimento scenico realizzato su bozzetti del pittore sardo Giuseppe Biasi, fu considerata eccellente e incontrò un’accoglienza trionfale anche grazie alla direzione di Gui e all’interpretazione del soprano Giannina Arangi Lombardi (Simona), del tenore Giuseppe Radaelli (Elias), del baritono Taurino Parvis (Tanu), del soprano Bertolasi (Cosema) e della piccola ma disinvoltissima Marcella Sabatini (Gabina). “Sul Mondo” di Roma, che pubblicò un resoconto della prima rappresentazione, il critico riconobbe, nel taglio decisamente corale dell’opera, addirittura un’analogia tra La Grazia e il Boris Godunov di Musorgskij.

Dobbiamo riconoscere che il lavoro del Michetti, nella sua sfera e nella sua natura quale noi abbiamo cercato di precisare, è un lavoro pregevolissimo. I gesti, le inflessioni, le sfumature ritmiche e foniche seguono in esso l’azione sempre appropriata e appaiono scaturite da sinceri moti dell’animo.

Il taglio verista delle musiche di Michetti colpì nel segno, se il critico del Popolo d’Italia di Milano potè affermare senza esitazioni: “il dramma è, come si vede, rapido, serrato, violento e lo accompagna un fresco e appassionato commento musicale che assurge talora ad una notevole altezza lirica. Le idee musicali sono semplici, chiare, sgorganti da italianissima vena. Lo strumentale è semplice, spontaneo: scevro da ogni ricerca complicata, ma tuttavia rivela una mano agile e sapiente”.

Il libretto de La Grazia, organizzato in tre brevi atti e un intermezzo, come si è accennato fu sceneggiato con abilità da Grazia Deledda, Claudio Guastalla e dallo stesso Michetti con l’intento di mantenere sempre molto alto l’interesse dello spettatore. L’azione è ambientata in Sardegna nei primi anni del secolo, quindi in epoca quasi contemporanea a quella di rappresentazione, e si svolge in un contesto rurale assolutamente “plebeo”. I personaggi più importanti sono sette: Simona (soprano), il suo sposo Elias Desole (tenore) e la figlia Gabina, i fratelli della donna, Pietro (tenore) e Tanu (baritono), il padre Tottoi (basso), l’amante ammaliatrice Cosema (soprano). La vicenda prende l’avvio con il racconto di Simona alla figlia Gabina di un fatto tormentoso: un giorno suo padre Elias partì per un paese lontano e non ritornò più; la donna giura di vendicarlo, se morto, o di vendicarsi, se egli fosse ancora vivo e l’avesse lasciata. Giunge Tanu, il più giovane dei fratelli di Simona, portando la notizia che Elias è vivo e sta con un’altra donna. La famiglia decide allora di punirlo.

Il secondo atto si apre con la festa della Madonna della Neve; Elias è al santuario con Cosema, la donna che lo ha condotto alla perdizione. Giungono Tanu, Pietro e Tottoi decisi a riportarlo da Simona per la giusta vendetta ed Elias, fieramente, acconsente a seguirli. Il terzo atto è preceduto da un intermezzo scenico, in cui Simona culla la sua piccina cantandole una ninna nanna. Ma è giunto il momento di giudicare Elias.

Nel terzo atto l’uomo spiega ciò che gli accadde: durante il viaggio fu raccolto, stremato, dai servi di una donna da cui rimase in seguito affascinato; ora è conscio del proprio peccato e desidera ritornare alla famiglia. Simona pare intenerita, ma i fratelli e il padre decidono per la condanna: legano Elias e lo stanno per giustiziare quando si ode il gemito di Gabina: la bimba – spaventata dalla scena che si mostra ai suoi occhi e terrorizzata dalla tempesta che avvolge la tragedia – cade inerte ed Elias, distrutto, implora che gli venga concesso di abbracciarla: Gabina si riprende, e il vecchio padre Tottoi, che interpreta l’accaduto come la volontà divina, concede La Grazia a Elias.

Mentre il racconto deleddiano si apre con il risveglio notturno della bambina che scende dal letto perché incuriosita dal tono della discussione che si svolge in cucina, ed è quasi interamente imperniato sul racconto di Elias che viene perdonato e lasciato ritornare dalla donna che lo ha salvato, nell’opera il nucleo originario del racconto viene collocato solo nel terzo atto ed è preceduto da un ampio antefatto in cui si narra della sparizione di Elias, compaiono diversi personaggi secondari, l’incontro dei fratelli di Simona con Elias alla festa della Madonna della Neve assume un’importanza molto rilevante; inoltre nell’opera, che si conclude con il ritorno definitivo di Elias nella casa di Simona, il ruolo di Gabina viene ridimensionato e ridotto a quello di una semplice comparsa.

La trama de La Grazia si configura, dunque, come un canovaccio molto elementare, in cui sono assenti gli sviluppi drammatici e gli imprevisti della storia tipici dei drammi romantici. Tutto l’intreccio si svolge intorno alla spiegazione di Elias, che ha come prologo la rivelazione di Tanu con la maturazione in Simona dei suoi propositi di rivalsa e hanno come epilogo il perdono della famiglia. La tipologia drammatica del lavoro si fonda più sulle proporzioni proprie del bozzetto, che su quelle del melodramma classico, in quanto è costruito intorno ad un episodio cronologicamente circoscritto e ad una serie di caratteri di personaggi piuttosto immediati. Alla base del dramma di Deledda-Guastalla-Michetti vi sono le principali caratteristiche che avevano consentito più di trent’anni prima il successo di Cavalleria rusticana: la contemporaneità della vicenda, che si svolge in Barbagia, è viva, reale, carica di sentimenti elementari e comprensibili a tutti; nella storia è assente un vero protagonista: i personaggi sono tutti funzionali e operano in regime di parità; nell’opera prevale il quadro d’ambiente, con una forte caratterizzazione in senso rurale e la consequenziale semplificazione psicologica dei caratteri dei singoli personaggi: le donne sono appassionate o seduttive, gli uomini sono sensuali oppure collerici e violenti; il dramma si conclude senza una distinzione tra buoni e cattivi: esistono solo esseri umani predestinati alla disperazione, simboli di un mondo reale immutabile, con le sue leggi dure e senza tempo. Rispetto all’originale deleddiano, ne La Grazia si impone anche una robusta componente corale, che segna l’opera fin dall’inizio e a cui è affidato il compito di esprimere il popolo, che qui – come spesso accade dei melodrammi di questi anni – si configura come uno spettatore passivo e sostanzialmente non coinvolto nelle vicende drammatiche dei personaggi. Il coro introduce l’ambiente pastorale che fa da sfondo alla vicenda quando a sipario alzato si sente intonare in lontananza:

Sas aes de sa foresta

pius allegras cantade

anzones ischerfiade

cun mecus faghine festa...

(Uccelli della foresta più allegri cantate; agnelli saltellate, con me fate festa...). Il complesso di voci è in primo piano nell’immancabile brindisi:

Mai ti potto orvidare

die e notte, idolu amadu

cun tecus so ischidadu

cun tecus in ogni sognare

(Mai ti posso dimenticare dì e notte, idolo amato; con te sono quando son desto, con te in tutti i miei sogni). è ancora la compagine vocale a cantare i gosos, le laudi alla Madonna che aprono e concludono il secondo atto. Come ha osservato Rubens Tedeschi per Cavalleria rusticana, insomma, anche ne La Grazia il popolo è rappresentato da

pastori riemersi dall’arcadia letteraria [...].

L’ascoltatore può stare tranquillo: costoro non occuperanno le terre dei baroni né parteciperanno a scioperi agrari. Sono poveri di buona pasta che vanno in chiesa alla domenica, si comunicano regolarmente e, se gli scappa una coltellata, è per l’onore.

La caratterizzazione d’ambiente de La Grazia viene realizzata con cura anche se, rispetto a tanti altri analoghi lavori “plebei”, ciò che distingue quest’opera è la mancanza dell’epilogo drammatico, del compimento della tragedia finale, nel rispetto del senso complessivo della novella originaria. In tutto il lavoro è comunque evidente lo sforzo di innestare nella trama alcuni elementi letterari, scenici e musicali indispensabili per ottenere un esplicito colore locale, in sintonia con lo sviluppo della sensibilità novecentesca nell’impiego dei materiali folclorici.

Se la fase “caratteristica” aveva infatti contraddistinto gli ultimi anni dell’Ottocento italiano, con i primi anni del XX secolo nel nostro Paese si era aperta una fase legata all’espansione della moderna etnomusicologia e al riconoscimento dell’importanza dei linguaggi etnofonici rispetto alla tradizione colta.

Anche se la pièce è genericamente ambientata “in Sardegna”, la scenografia de La Grazia è efficacemente definita dagli sfondi di Biasi e prescrive la presenza di “costumi più caratteristici della gente sarda”, giungendo a specificare che le fanciulle che compaiono all’inizio del secondo atto “vestono il costume nuorese”. Ma ne La Grazia la connotazione folklorica avviene soprattutto con un largo impiego della “limba”, che compare nelle brevi apparizioni fulminanti dei personaggi secondari come negli interventi corali più estesi, nell’esordio del canto di Tanu alla festa della Madonna della Neve del secondo atto, o nella ninna nanna che Simona canta alla figlia Gabina nell’Intermezzo.

L’esigenza di ambientare realisticamente la trama coinvolge, com’è ovvio, anche le scelte del linguaggio musicale. Michetti rinuncia ad inserire ne La Grazia delle canzoni originali sarde o dei motivi autentici. La sua scelta è quella di reinventare i materiali musicali ispirandosi genericamente alla tradizione isolana, come nel secondo atto, quando compaiono i gosos e nel momento in cui si presenta il già citato canto di Tanu.

Una certa originalità linguistica, tuttavia, emerge nella ninna nanna di Simona dove, su un tempo cullante di 6/8 e accompagnata da un aspro bordone, si snoda una nitida melodia popolareggiante;

Alla prova dei fatti, dunque, la re-invenzione dei modi popolari delle musiche di Michetti si fonda su una conoscenza soltanto generica dell’etnofonia sarda da parte del compositore: il suo richiamo al patrimonio folclorico isolano non ha conseguenze di rilievo sul piano sintattico-musicale e non fa alcun riferimento ai nuovi principi strutturali emersi in quei decenni dagli studi etnomusicologici, ma si traduce direttamente in un ricalco stilistico, in una citazione ritmico-melodica funzionale.

Più che l’applicazione delle conoscenze del repertorio popolare, dalle musiche di Michetti emerge un complessivo sentimento elegiaco, che permea il racconto fin dal primo atto, quando Simona piange la sua sventura, prosegue nel secondo atto, quando Elias rivela il suo intimo tormento.

E non è assente nell’opera neanche un’efficace ambientazione realistica, particolarmente evidente nella canzone a ballo del secondo atto con il duetto tra Tanu ed Elias, l’intermezzo fragoroso con la bimba impaurita, il racconto di Elias e la scena finale dell’opera.

Quella di Michetti, in conclusione, è una concezione operistica che musicalmente isola i sentimenti che vengono rappresentati in istanti in cui il personaggio vuole effettivamente esprimere quanto vive in modo chiaro e risolutivo. Grazie a questo nitore comunicativo, Cavalleria rusticana aveva riportato il melodramma al suo ruolo ufficiale di spettacolo popolare per eccellenza, efficace mediatore di posizioni ideologiche complesse, che accostavano la riscoperta dei valori “rurali” all’esaltazione della più pura italianità. Pur ricorrendo ad un armamentario linguistico più moderno, La Grazia ne ripercorre le orme, in un contesto complessivo che stempera gli atteggiamenti più accesi del verismo musicale, aggirandone il gesto esuberante e platealmente “plebeo”.

Non è casuale che, poco dopo il debutto, La Grazia trovi la sua realizzazione cinematografica; anzi, il destino filmico del lavoro di Grazia Deledda, Claudio Guastalla e Vincenzo Michetti costituisce quasi una metafora del fondamentale cambiamento che interverrà in quegli anni nell’immaginario collettivo italiano.

A partire dal terzo decennio del Novecento, infatti, non ha più molto senso parlare di una tradizione italiana del teatro d’opera: anche se non mancano le opere composte in Italia, si è ormai dissolta quell’entità unitaria che si denominava “opera italiana”, sia per la crisi della produzione che per quella della ricezione. Bruciato il verismo, virato il naturalismo pucciniano in decadentismo, dopo la rappresentazione postuma di Turandot nel nostro Paese non si produrrà più un solo titolo operistico in grado di entrare stabilmente in repertorio.

E’ stato perciò il cinema l’arte narrativa che più direttamente ha ereditato il patrimonio ideale e tecnico del teatro musicale italiano, e che del melodramma, a partire proprio dalla fine degli anni Venti, ha preso il posto nella cultura di massa.

Quale relazione può esistere allora oggi tra le musiche che Vincenzo Michetti ha concepite per la trascrizione librettistica della novella di Grazia Deledda e quelle che ha composto adesso Romeo Scaccia, a quasi un secolo di distanza, per l’omonimo film? In apparenza, nessuna.

Se l’opera del pesarese allievo e seguace di Mascagni si presentava negli anni Venti del Novecento come un lavoro inquadrato in un repertorio sostanzialmente conservatore e collaudatissimo, la creazione del giovane musicista cagliaritano invece sfugge volutamente ad una rigida catalogazione ed è assolutamente e apertamente figlia del nostro tempo.

Assai eclettiche nella scelta dei materiali impiegati, le musiche di Scaccia sono nate per commentare una vicenda filmica certamente datata, ma capace, ancora oggi, di colpire lo spettatore.

E, infatti, la interpretano con sottile e raffinatissima ironia, con quell’effimera ma irresistibile leggerezza che costituisce la fotografia più vagheggiata di quegli anni lontani.

Dentro la partitura de La Grazia in versione cinematografica, Scaccia ha inserito un po’ di tutto, inanellando una scena dopo l’altra come un serpentone che intreccia la poetica eleganza romanza da salotto della prima metà del Novecento con elementi ispirati dalla tradizione musicale sarda e arriva fino alle esternazioni ritmiche dei rapper, passando tra le movenze delle forme barocche, le malizie del café chantant, gli allegri ritmi dello swing, i grandi standard americani, il tango.

Ce n’è abbastanza per comporre un affresco multiforme e originale, in grado di “porgere” un film d’epoca in modo inedito e nuovo.

Ma neanche Scaccia riesce a sfuggire al fascino della narrazione deleddiana; come accade anche nell’opera di Vincenzo Michetti, le sue musiche per il film, inizialmente sfavillanti e seduttive, dense di trovate accattivanti, nel corso della vicenda diventano via via più appassionate ed intense, svelando una concezione della musica come espressione immediata, diretta e spontanea, senza rigidità teoriche. Come Michetti, dunque, lontana dalle concettualizzazioni tipiche del Novecento e dalle poetiche coeve più sperimentali.
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