Tarda sera del 27 gennaio 1967, Eugene Cernan, l'ultimo uomo sulla luna, percorre a passo svelto i pochi metri che separano casa sua da quella del collega Roger Chaffee. Gli occhi gonfi, il cuore in subbuglio. L'amico è morto. E insieme a lui sono morti anche gli astronauti Grissom e White, vittime di un gravissimo incidente a Cape Canaveral durante l'addestramento per la missione Apollo 1 che sarebbe dovuta partire un mese dopo. In quei giorni Eugene, che tutti chiamano Gene, si sta invece preparando con altri due astronauti dalla parte opposta dell'America, in California. Appresa la notizia della tragedia, sale di corsa a bordo di un T-38 bimotore per raggiungere la moglie del fraterno amico: al suo arrivo la troverà in lacrime circondata dagli uomini della Nasa. In quei pochi passi che dividevano le due basse villette, immerse nel verde, vicine a tante altre uguali, si snodavano le vite degli uomini dello spazio, in quei lontani anni Sessanta e Settanta del secolo scorso.

Rivalità accese tra cervelli fuori dal comune, gioie e frustrazioni, barbecue domenicali, nascite e morti. Già, la morte. Sempre presente accanto agli astronauti dei programmi di esplorazione dello spazio. Incubo costante degli astronauti e delle loro famiglie, mogli e figli pronti a diventare, in un maledetto attimo, orfani e vedove di eroi decorati al Valore. Come alle famiglie dei soldati, anche a quelle degli astronauti si insegnava a mettere in conto un destino crudele e uno alla ribalta delle cronache. E da soldato, da vero marine, Cernan si comportò in quella sera d'inverno, così come nei giorni seguenti, davanti alle tre bare, in una delle quali, pensò, poteva esserci lui. Ricordò gli anni in cui, prima di entrare a far parte del programma della NASA, quando era in Marina, gli insegnarono il motto "semper fortis", con i metodi poco ortodossi ma spesso efficaci dei proverbiali sergenti istruttori.

E quel motto, diventato ormai parte di lui, gli consentì di andare avanti nell'esplorazione spaziale, portando con sé la memoria di quel compagno e degli altri, molti, che sacrificarono la vita sull'altare della conoscenza. Erano i tempi della corsa sfrenata fra Americani e Russi a suon di uomini per conquistare prima lo spazio e poi la luna. Ma con un obiettivo decisamente più terrestre: l'egemonia culturale, oltreché economica e militare.

Quel maledetto 27 gennaio di 53 anni fa rese tutto più complicato agli americani.

L'equipaggio dell'Apollo 17 (foto Nasa)
L'equipaggio dell'Apollo 17 (foto Nasa)
L'equipaggio dell'Apollo 17 (foto Nasa)

Tre uomini, tre astronauti, forse i migliori della selezione, erano morti per un banale errore umano: una scintilla da un sistema elettrico difettoso, in una cabina satura di ossigeno. Una morte terribile, forse inutile? I soldi dei contribuenti, le vite dei giovani astronauti, i russi che, nel frattempo, inanellavano successi. Ma, come nei migliori film americani, dal sangue di questi sfortunati eroi sembrò rinascere la speranza di portare a meta il progetto più ambizioso dell'intera storia dell'umanità. E se non fu facile come in un blockbuster, con ore di altissima formazione ingegneristica e astrofisica, mesi di preparazione fisica con nulla da invidiare ad atleti olimpionici, settimane di psicoanalisi, alla fine il complesso sistema dei programmi spaziali cominciò a mietere faticosi successi.

Eugene Cernan sulla luna (foto Nasa)
Eugene Cernan sulla luna (foto Nasa)
Eugene Cernan sulla luna (foto Nasa)

Anche il nostro uomo, Cernan, figlio di immigrati dell'Europa dell'est, cresciuto a pane e "stelle e strisce", marciava deciso verso il futuro: fu tra i primi a effettuare un'attività extraveicolare nello spazio, compagno di università di Neil Armstrong, che più volte incrociò nei numerosi addestramenti di quegli anni. Anche di lui si dice che non ebbe, come il più illustre collega, un carattere facile: da comandante dell'Apollo 17, impose una traiettoria e un allunaggio che non mettessero in pericolo l'equipaggio, sacrificando una parte dell'interesse scientifico della missione e la possibilità di far finanziare i programmi post-Apollo, ormai in definitivo declino. Correva l'anno 1972 e l'uomo - proprio Cernan - metteva per l'ultima volta il piede sulla luna. In seguito, nel 2010, si oppose alla chiusura del programma governativo "Constellation", ma ormai era un civile, padrone di una società di consulenza spaziale.

Insomma, ormai era tutto diverso rispetto al 1969, quando l'interesse per il programma spaziale era ancora vivo ed entusiasmava i politici e la gente comune. Il 18 maggio di quell'anno, Cernan, insieme al veterano comandante Stafford e al pilota del modulo di comando Young, salì a bordo dell'Apollo 10 e spianò così la strada al più celebre fratello Apollo 11.

Eugene Cernan, durante l'addestramento (foto Nasa)
Eugene Cernan, durante l'addestramento (foto Nasa)
Eugene Cernan, durante l'addestramento (foto Nasa)

La sua fu una missione gemella di quella che il 20 luglio 1969 avrebbe portato per la prima volta l'uomo sulla luna. Identica in tutto e per tutto: con la differenza che Cernan si fermò a 15.243 metri dalla superficie lunare. Dovette aspettare altri tre anni e sette mesi per coronare il sogno di una intera vita. Il 14 dicembre 1972, Eugene, sollevando il piede dalla superficie polverosa del nostro satellite al termine di una missione con numeri da record, pronunciò solo poche commosse parole. «Mentre stiamo per lasciare la luna, ce ne andiamo così come siamo venuti e, se Dio vuole, ci ritorneremo in pace e speranza per tutta l'umanità». Le parole che nessuno sentì, invece, le raccontò nella sua autobiografia edita nel 1999, un omaggio al suo mai dimenticato amico Roger Chaffee: dissi "buona fortuna all'equipaggio dell'Apollo 1 e mi arrampicai a bordo".

Da quel giorno nessuno essere umano ha più messo piede sulla luna. Gene Cernan è morto in un ospedale di Huston il 16 gennaio 2017. Il suo ultimo volo verso le stelle.
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