Parlare della situazione di Israele è sempre complesso; in questi anni ho avuto modo di fare delle sintesi della complicata politica israeliana, affinché fosse più chiaro l’ordine degli eventi a tutti i lettori, ma lo stato attuale è divenuto ancora più articolato e difficile.

Oltre al consueto tentativo di spiegare la situazione che oggi si vive in quel piccolo paese del Vicino Oriente, alla fine dell’articolo mi permetto anche di dare una mia interpretazione dell’attuale stato della vita sociale e politica di Israele, supportato nelle mie valutazioni da alcuni testimoni diretti.

Andiamo con ordine e proviamo prima di tutto a chiarire cosa sta succedendo e perché.

Le elezioni del novembre 2022, le quinte in 3 anni, sono state vinte da una maggioranza di destra e estrema destra (in questo articolo trovate una chiara spiegazione dell’esito di quel voto).

In sintesi, la vittoria delle destra a novembre è avvenuta per varie ragioni, quali l’ennesima crisi di governo in pochi anni (di un governo tra l’altro estremamente composito), gli attentati che si succedettero a partire da maggio 2021 (i terroristi arabi confermano di essere i migliori amici della destra), la divisione nel campo arabo-israeliano (solo gli ingenui o gli stupidi pensano che gli arabi siano uniti) e la divisione nel campo della sinistra che ha di fatto permesso l’attribuzione di un numero maggiore di seggi alla destra; Meretz partito laico di sinistra ha ottenuto il 3,16 dei voti e Balad, partito arabo non islamico, il 2,90  non eleggendo dunque nessuno e lasciando seggi proprio alle forze di destra (la soglia di sbarramento è fissata al 3,25% dei voti validi).

Dopo un discreto lasso di tempo, Netanyahu ha formato un maxi governo di 30 ministri (tutta la Knesset, il parlamento israeliano, è composto da 120 seggi…), il governo più a destra della storia di Israele. E con una componente, quella dei sionisti religiosi, di destra estrema, omofoba e con tendenze razziste. Per essere chiari: nello scorso dicembre Orit Strock, Ministro delle missioni nazionali espresso dal partito Sionista Religioso, ha lasciato intendere che il suo partito vorrebbe proporre una riforma secondo la quale i medici israeliani potrebbero rifiutare le cure ai pazienti LGBTQ per motivi religiosi (idem tassisti o albergatori che potrebbero rifiutarsi di accoglierli). Il primo ministro Netanyahu (che ha sostenuto Amir Ohana, gay dichiarato e suo fedelissimo, come Speaker della Knesset) ha ribattuto subito che questo non è nel programma e soprattutto ha difeso le persone LGBTQ da questo tipo di proposte insultanti, ma il dato politico resta. Sempre da parte degli ortodossi, c’è la speranza che intervenendo sul potere giudiziario e rendendolo succube alla Knesset, potranno definitivamente essere esentati dal servizio militare gli haredim (“i timorati di Dio” super ortodossi); la Corte Suprema oggi infatti potrebbe – giustamente – annullare leggi che dovessero andare in quella direzione ampliando le già palesi discrepanze col resto della popolazione soggetta alla leva obbligatoria. Il desiderio è anche che un ramo giudiziario debole non possa più fare nulla per impedire il proliferare delle colonie in Palestina.

Affianco a queste richieste sottotraccia, sono partite dunque le vere proposte di legge che puntano a ridimensionare il ruolo della Corte Suprema, dei giudici e dei magistrati. Ad esempio una “norma a scavalco” che con la maggioranza semplice di 61 deputati su 120 permetterebbe di sovrascrivere, ribaltando di fatto, le sentenze della Corte Suprema considerate non in linea col governo.

La Corte Suprema israeliana non opera sulla base di una Costituzione perché, malgrado esistesse una bozza nel 1948, alla fine non venne votata nessun a carta costituzionale dalla Knesset; il 13 giugno 1950 i leader israeliani decisero che la costituzione sarebbe stata legiferata "capitolo per capitolo". Così, al posto di una costituzione, il parlamento israeliano ha approvato una serie di leggi fondamentali che sono diventate le fondamenta costituzionali essenziali del paese; queste vengono definite “Leggi base di Israele”, un elenco di 14 pronunciamenti scritti tra il 12 febbraio 1958 e il 19 giugno 2018.

Oggi la Corte Suprema può annullare una legge se contraddice una delle leggi fondamentali di Israele. Se ad esempio venisse fatta una legge che vieta determinati lavori, sarebbe annullata dalla Corte sulla base della nona legge fondamentale di Israele del 3 marzo 1992 sulla “Libertà di occupazione”; se passasse la riforma della destra basterebbe il voto di 61 parlamentari per annullare la decisione della Corte.

Un altro cambiamento proposto riguarda il processo delle nomine giudiziarie: in Israele è un comitato di politici, giudici in carica e avvocati a nominare i nuovi giudici. La proposta di riforma darebbe la maggioranza al governo che potrebbe dunque avere l’ultima parola sulle nomine dei giudici. È da segnalare che Netanyahu in passato si è sempre opposto a revisioni di questo tipo e ha difeso l’operato indipendente della Corte Suprema; è probabile che il processo che lo vede imputato da anni (gestito molto male dalla accusa) lo abbia spinto a cambiare idea.

Queste proposte di cambiamento sono vissute da gran parte della popolazione come un tradimento della essenza stessa della democrazia israeliana. Una democrazia senza dubbio imperfetta ma che finora ha permesso una pluralità di opinioni e soprattutto una libertà di espressione, in ogni ambito della propria vita, che era la sua principale caratteristica. Queste preoccupazioni, sulla tenuta futura del paese, sono espresse da migliaia di persone di ogni tipo: la sinistra è ovviamente contraria ma anche i militari non sembrano apprezzare la riforma e perfino la destra moderata è scesa a manifestare. Stanno protestando tanti riservisti di varie armi, che si rifiutano di andare all'addestramento annuale, e centinaia di israeliani espatriati (a Londra, New York e anche a Roma durante la visita di Netanyahu) sono scesi in piazza al grido di “Bibi crime minister not prime minister”. Finanche i piloti di linea hanno manifestato, tanto che la linea di bandiera El Al ha avuto difficoltà nel trovare un pilota disposto a portare a Roma Netanyahu a causa del loro sostegno attivo alle manifestazioni. Sembrano purtroppo mancare nelle proteste gli arabi israeliani e ovviamente gli ortodossi. Anche il presidente israeliano Isaac Herzog ha preso posizione dichiarando che «Israele è sull’orlo dell’abisso. Siamo alle prese con un profondo disaccordo che sta lacerando la nostra nazione, danneggiando l'economia, la sicurezza, i legami politici di Israele e soprattutto la coesione israeliana», facendo intendere che sarebbe pronto a non firmare la legge proposta e provando a proporre un piano alternativo che però non sembra avere per ora riscontri positivi a destra.

Questa è la situazione attuale. La domanda di fondo da porsi è, perché si è arrivati a questa situazione di contrasto così violento? Perché la destra israeliana è diventata così aggressiva, perché i religiosi hanno preso tutto questo spazio e influenza?

Qualche giorno fa la comunità ebraica Bet Hillel di Roma ha organizzato un interessante dibattito online nel quale lo statistico e intellettuale Sergio Della Pergola ha fatto una stimolante disamina sulla situazione in Israele. Alla fine, rispondendo ad alcune domande ha detto: «Theodor Hertzl -padre del sionismo- oggi sarebbe per le strade a manifestare. Lo stato di Netanyahu non è lo stato di Herzl; ma aggiungo, lo stato di Netanyahu non è neanche lo stato di Begin (fondatore del Likud e primo premier di destra in Israele); non c’è continuità ideologica neanche con quella destra».

Ecco questo credo che sia uno dei principali motivi della crisi odierna ed è un ragionamento che ho riscontrato anche nel mio recente viaggio in Israele a gennaio nel quale ho intervistato per lavoro ebrei italiani che vissero le discriminazioni razziali in Italia e che per varie ragioni e in vari periodi decisero di andare in Israele.

Due di loro con storie molto diverse, un kibutznik (fondatore di kibbuzt) arrivato nella Palestina mandataria prima del 1945 e un emigrato più recente, mi hanno detto la stessa cosa: «Questo paese non è più un paese sionista ma è diventato un paese nazionalista».

Malgrado ci sia chi fa un parallelismo -errato- tra sionismo e imperialismo, in realtà il sionismo era un’altra idea e non era questa ottusa manifestazione nazionalista e religiosa. È una differenza molto più rilevante di una semplice sfumatura linguistica, è l’esatto punto di rottura che si sta vivendo oggi.

Chi ha avuto modo di visitare Israele si sarà accorto che è un paese molto caotico, assolutamente distante dall’idea di razionalità e precisione che può dare all’estero; nel suo grande caos -balagan gadol- però si potevano ritrovare elementi comuni a cui tutti potevano rifarsi ed era esattamente questo a fare in modo che il paese avanzasse insieme. Oggi sembra invece che i tratti contraddistintivi peggiori della destra siano divenuti i principali aspetti condivisi, che l’estremismo religioso e economico liberista sia divenuto l’aspetto prominente, che il disprezzo verso l’altro stia assumendo proporzioni mai esistite. Questo governo non è in linea con la destra di Begin ma piuttosto con la destra di Trump, un modo di operare totalmente avulso alla storia del paese e che rischia di esacerbare le divisioni sociali già esistenti fino a portarle a un punto di rottura. Mai il paese è stato così diviso; questo è il nazionalismo che oggi rischia di travolgere Israele.

Filippo Petrucci – Cagliari

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