autodeterminazione e libertà nel compromesso russo-ucraino

Volodymyr Zelensky, pur facendone salve la sovranità e l’integrità territoriale, si sarebbe detto disposto ad accettare una condizione di neutralità della Sua Ucraina e a rinunciare al nucleare nel contesto di un più ampio accordo di pace con la Russia che passi attraverso un immediato “cessate il fuoco”. Nello stesso tempo, tuttavia, si è rivolto all’Occidente accusandolo apertamente di “giocare a ping pong per decidere chi dovrebbe mandare i jet”. E ancora, appellandosi alla Nato con toni tanto provocatori quanto inappropriati - a dir poco - sul piano della diplomazia internazionale, si è fatto lecito di tuonare contro la “direzione” politica della Organizzazione, accusandola di “sudditanza” psicologica rispetto alle intimidazioni di Mosca, per poi nuovamente insistere sull’invio di aerei e tank in sostegno dell’Ucraina.

Dispiace doverlo stigmatizzare, ma negare la distonia e la dissonanza linguistica e contenutistica di una narrazione di tal fatta sarebbe un atto ipocrita e non renderebbe giustizia alla verità dei fatti. Se si trattasse, infatti, anche solo per un minuto, di soffermarsi sulla pura e semplice concatenazione metodologica delle richiamate dichiarazioni, si potrebbe addirittura riconoscere (questa perlomeno sembrerebbe la sensazione) nel loro autore un “incauto agnello”, o quasi, pronto ad ottenere il “tutto” e poco disposto a cedere alcunché malgrado la propria condizione di evidente minorità difensiva. D’altra parte, neutralità e rinuncia al nucleare avevano costituito l’oggetto delle primissime richieste moscovite. E proprio sulla scia di queste richieste, ritenute inaccettabili dal presidente ucraino, si è dato inizio a una operazione militare speciale che a tutt’oggi persiste in tutta la sua cruenza. Mi chiedo allora se fosse davvero così necessario “resistere romanticamente” alle richieste russe per poi volervi cedere, se davvero si volesse cedere, dopo trentatré giorni di bombardamenti, di morte e di distruzione. Sovranità e autodeterminazione hanno un senso se rapportate ad un popolo (ma sarebbe meglio dire Stato appartenendo il relativo diritto solo alle organizzazioni statali), quale quello ucraino, costretto a ricercare accoglienza nei Paesi limitrofi, che rischia di perdere per sempre il proprio territorio di riferimento siccome “polverizzato” dalle sfiancanti operazioni militari moscovite?

In questo momento, lo Stato ucraino si identifica maggiormente con i desiderata del suo governante, o con quelli del suo popolo? Intendiamoci: il principio di autodeterminazione che Zelensky pare essere propenso a difendere potrebbe definirsi come quel principio in forza del quale ciascun popolo (Stato) avrebbe diritto (in senso puramente a-tecnico) di “vivere libero da qualsiasi tipo di oppressione, tanto interna che esterna”. Quindi, se così è, allora si dovrebbe convenire nel riconoscere che il conseguimento e/o la conservazione della propria autodeterminazione e sovranità non può in alcun modo prescindere da un altrettanto fondamentale principio di “consapevolezza” quale momento ispiratore dell’azione politica, diplomatica e smilitarizzata di un Capo di Stato che come tale voglia essere riconosciuto. Tanto più allorquando si voglia considerare che il diritto all’autodeterminazione, se questo è davvero il fine, lo scopo teleologicamente inteso, della “resistenza” ucraina, sebbene sia condizione necessaria a garantire il godimento dei diritti individuali, tuttavia parrebbe mancare della sufficienza necessaria al conseguimento del risultato siccome il conseguimento dell’indipendenza rispetto ad un potenziale aggressore (Vladimir Putin) non si traduce automaticamente nel correlativo riconoscimento di un diritto fondamentale (quello appunto alla autodeterminazione) comunque condizionato al buon esito di un compromesso che, mutatis mutandis, nei termini apparentemente accolti dal presidente ucraino, rappresenta solamente la “accettazione volontaria” di una condizione di neutralità e disarmo in realtà non voluta.

Intanto perché la accettazione (egoisticamente auspicabile in termini generalissimi per assicurare la cessazione delle operazioni militari) di quella condizione di neutralità potrebbe apparire come la negazione di quel principio di autodeterminazione che si diceva di voler preservare. Quindi perché, tutto sommato, la accettazione “condizionata” della condizione di neutralità (si perdoni il gioco di parole) si tradurrebbe comunque, e grosso modo, in una “deminutio” di sovranità difficile da spiegare al popolo ucraino animato dall’ideale romantico, ma poco realistico, di una resistenza a oltranza che parrebbe aver contribuito a prolungare un’agonia già fin troppo lacerante. Infine perché la traduzione, in termini giuridici, di un qualsivoglia compromesso di pace tra Russia e Ucraina non potrebbe che passare attraverso l’accettazione di una volontà di “convivenza” tra i due popoli in astratto, ma solo in astratto, “soggetti” variamente ma non pariteticamente autodeterminati. Insomma: la piena operatività del principio di autodeterminazione personificato dalla resistenza ucraina sembra essere destinata a scontrarsi con la declamazione strumentale del suo concetto più profondo. Le operazioni militari si sono protratte troppo a lungo per poter giustificare cedimenti reciproci o auspicabili come tali.

Dal canto suo, la Russia sembrerebbe aver fatto riferimento al 9 maggio prossimo quale momento finale della propria operazione militare speciale. Una data significativa se si considera, tra l’altro, che per noi occidentali quella è la Giornata dell’Europa diretta a commemorare la cosiddetta “Dichiarazione Shuman”, e che ha segnato non solo la fine della Seconda guerra mondiale, ma anche l’inizio del processo di integrazione europea con l’obiettivo di una futura unione federale. Forse, e dico forse, sarebbe il caso di meditare più attentamente sulla circostanza. La vicenda russo-ucraina, infatti, è né più né meno che il riflesso del fallimento della Politica e della Diplomazia vissute con spirito democratico e libertario. La sua stessa conduzione “muscolare”, l’atteggiamento velatamente acquiescente dell’Occidente rappresentano la negazione in termini di ogni principio di libertà e autodeterminazione che si dice di voler affermare. Quanti morti dovremo ancora contare prima di arrivare con spirito risolutivo a un tavolo di pace?

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato – Nuoro)

© Riproduzione riservata