Da molti anni osserva con lo sguardo dell’esperta di geopolitica quello che accade in Israele e studia il terrorismo islamico. Anna Maria Cossiga, sassarese, docente universitaria e vice direttrice dell’ufficio Analisi strategiche di Med-Or, fondazione presieduta dall’ex ministro Marco Minniti, vede ciò che sta accadendo a Tel Aviv e Gerusalemme con gli occhi disincantati di chi da tempo analizza l’estremismo e ha il timore che soluzioni a breve termine non siano praticabili.

Partiamo dal raid di sabato: lei ritiene che Israele si sia concentrato troppo sui problemi interni lasciando da parte le attività di intelligence per cui è sempre stata famosa?

«Direi che la distrazione è precedente a questo governo. Soprattutto dopo l’ultimo conflitto a Gaza nel 2021, credo che Israele si fosse illuso di avere ormai Hamas sotto controllo. Forse sperava che gli ingenti finanziamenti concessi dal Qatar al movimento terrorista lo avesse definitivamente quietato. Sembra dimostrarlo il fatto che l’attenzione sul confine con Gaza è stata indebolita per concentrare, invece, le truppe in Cisgiordania, dove di recente si sono verificati numerosi attentati. È stato un errore gravissimo per Israele che ha anche spostato le truppe su quel fronte. I servizi, ma anche le barriere costruite negli anni, non hanno funzionato e poi non ci sono state notizie di intelligence neanche da parte statunitense. Gli unici che dicono di aver avvertito Israele sono stati gli egiziani. E poi il partito Potere Ebraico ha portato avanti negli ultimi tempi una politica antipalestinese pensando alla invincibilità di Israele senza una giustificazione: le forze di estrema destra al governo hanno stuzzicato Hamas con provocazioni ripetute, per quanto l’azione dell’organizzazione palestinese non sia giustificabile».

Un importante dirigente dei Servizi italiani ha sostenuto nei giorni scorsi che Mossad e Shin Bet non valorizzino più a sufficienza le attività umane, ossia gli agenti, e questo li ha traditi.

«Sono d’accordo e soprattutto mi ha colpito la teoria di un generale di brigata dell’esercito di Israele, Amir Avivi, che possiede anche un centro studi: ha parlato dell’ipertecnologia dei servizi israeliani, che si è scontrata con la scelta di Hamas di utilizzare tutti i metodi, soprattutto quelli più tradizionali, per evitare che le sue mosse fossero intercettate. Così come l’Isis che non usava gli smartphone, Hamas ha utilizzato gli aquiloni e i palloncini per appiccare il fuoco nelle zone di confine, e i miliziani sono arrivati con i deltaplani. Avere troppa fiducia nell’alta tecnologia e abbandonare il fattore umano è un grandissimo errore».

Hamas è un’organizzazione terroristica ormai al potere da anni ma da tempo non ci sono elezioni in Palestina. Quali altre organizzazioni fanno parte della galassia che sta attaccando Israele e che ruolo hanno?

«Hamas è una dittatura e questo spesso viene dimenticato. Su questo Netanyahu ha ragione: è un movimento jihadista che non può essere democratico. Non tutti nella Striscia di Gaza appoggiano Hamas, molti sono solo dei bravi musulmani che diventeranno martiri per il loro sacrificio. Al contrario le idee di Hamas sono le stesse dell’Isis, così come i metodi. Al momento, per rispondere anche alla seconda domanda, la Jihad islamica è la vera alleata di Hamas, che viene comunque finanziata dall’Iran, e con gli Hezbollah sono amici come dimostrano gli attacchi che arrivano a Israele dal nord, al confine con il Libano».

Su quanti fronti dovrà muoversi Israele visto che anche al nord del Paese la situazione è abbastanza turbolenta?

«Anche Hezbollah deve mantenere una sua narrazione ma non so quanto convenga loro entrare in conflitto con Israele. La tragica situazione libanese ha fatto perdere consensi a Hezbollah, che può aver perso parte del suo potere».

Lei crede che la ragione prima di questo attacco sia il sabotaggio dei cosiddetti accordi di Abramo e un possibile legame forte tra Tel Aviv e Riad?

«Di sicuro l’obiettivo è anche quello di far saltare gli accordi di Abramo, però questa intesa tanto decantata voluta da Trump e Netanyahu in realtà è un po’ ferma. Adesso, con l’ingresso dell’Arabia Saudita avrebbe fatto un passo avanti importante includendo il Paese musulmano più rilevante, anche dal punto di vista simbolico in quanto sede della Mecca e di Medina, nella normalizzazione con lo stato ebraico. Si tratta, però, di accordi voluti dall’alto, dai governi. È necessario, a mio parere, tenere conto anche dell’opinione delle popolazioni arabe, storicamente anti-israeliane. In Giordania, per esempio, nonostante il Paese sia in pace con Israele dagli anni ‘90, il sentimento della popolazione è lo stesso. Su questa realtà spesso si sorvola».

Le posizioni di Russia e Iran hanno cambiato gli scenari nella regione?

«Questa è una domanda da un miliardo di dollari. L’Iran nega di essere coinvolto. Ma tutti questi missili a lunga gittata, in grado di raggiungere Tel Aviv e Gerusalemme, da dove arrivano? E come mai nessuno si è accorto che venivano introdotti in certi territori? Non si tratta mica di noccioline. I legami di Hamas con l’Iran sono evidenti. Per quanto riguarda la Russia, ha stupito che non abbia fatto alcun commento nei primi giorni, per poi dire che va presa in considerazione la soluzione dei due Stati. Tuttavia, non ha condannato Hamas e il ceceno Ramzan Kadyrov ha detto che sarebbe pronto a combattere con i fratelli musulmani. E poi ora spuntano i primi articoli in cui si parla di un possibile coinvolgimento della Wagner, che oramai risponde soltanto a Putin. Israele e la Russia hanno avuto da sempre buoni rapporti perché molti israeliani provengono dalla Russia e la diaspora ebraica nel Paese è numerosissima. Ultimamente ci sono stati anche vari episodi un po’ particolari di litigi e più volte Putin e i suoi hanno stigmatizzato l’origine ebraica di Zelensky. E poi va tenuto conto che gli Stati Uniti dovranno aiutare ora anche Israele oltre l’Ucraina e nonostante la grande disponibilità di armi, da un punto di vista economico, vediamo che può essere un problema per Biden».

Quale sarà secondo lei la reazione di Israele, soprattutto dopo la scoperta dei cadaveri dei 40 bambini nel kibbutz?

«La reazione sarà devastante. Ho paura che anche Hezbollah dovrà stare molta attenta se entrasse in conflitto diretto. L’unico freno potrebbe essere la presenza di ostaggi, e su questo fronte ora c’è la mediazione di Egitto, Qatar e Turchia. Pare anche che siano stati liberati una madre con un bambino. Però su questo vanno soppesati i rapporti interni di Israele, dove si è formato un governo con parte dell’opposizione, ma sappiamo quale sia la posizione estremista e antipalestinese di alcuni membri del governo Netanyahu. Gli altri partiti dell’opposizione, tra cui quello di Lapid, sono rimasti fuori da questo governo. Bisogna tenere conto che il sionismo estremo è veramente estremo e l’unità che in questo momento dovrebbe avere il Paese a livello politico nella realtà non è così forte».

Ultima domanda, la soluzione di due Stati proposta anche dall’Italia può avere un futuro?

«Due Stati potrebbero essere la soluzione giusta ma per come è la situazione della popolazione oggi non è facilmente praticabile nel breve periodo. I palestinesi sono in una situazione di occupazione da più di 60 anni. L’ipotesi di David Grossman, noto scrittore israeliano, è che il Paese “dopo la guerra, sarà molto più di destra, militante e anche razzista”. È certamente l’opinione di un israeliano posizionato politicamente, ma forse – purtroppo – non si allontana dal vero. Ci vorrebbe un impegno enorme di educazione per far superare ai giovani questa spirale d’odio di continue vendette e contro vendette, quindi parliamo di lunghissimo periodo. E ancora meno plausibile mi pare l’idea di uno Stato e due popoli».

Giuseppe Deiana

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