La sentenza del processo per la strage di Bologna dovrebbe arrivare a metà gennaio, ma una certezza c'è già: i resti che si pensava fossero di Maria Fresu in realtà non sono della ventitreenne originaria di Nughedu San Nicolò che la mattina del 2 agosto 1980 morì con la sua bambina nella sala d'aspetto della stazione sventrata da una bomba.

Ma se quel lembo facciale, la porzione di cuoio capelluto e l'osso di una mano non sono della giovane mamma, a chi appartengono? Il referto dell'esame del Dna eseguito dalla biologa forense Elena Pilli ha, di fatto, rianimato la tesi di chi - partendo dall'esistenza della vittima numero 86 (una in più dunque delle 85 ufficiali), magari colei che trasportava l'ordigno - non crede alla matrice fascista dell'attentato e ipotizza invece la pista del terrorismo rosso filo-palestinese.

Quei resti non identificati, dunque, potrebbero appartenere a una donna senza nome. Una donna di cui mai nessuno ha cercato il corpo.

PRIMA DELL'ESPLOSIONE - È la tesi avanzata nel corso degli anni dai difensori di Francesca Mambro, Valerio Fioravanti e Luigi Ciavardini, gli ex militanti dei Nuclei armati rivoluzionari condannati in via definitiva come esecutori materiali della strage. Ed è la tesi della difesa dell'ex Nar Gilberto Cavallini, 66 anni, sul banco degli imputati in Corte d'Assise a Bologna con l'accusa di concorso nell'attentato (i pm Antonello Gustapane e Enrico Cieri hanno chiesto la condanna all'ergastolo.

Uguale la richiesta della parte civile).

La riesumazione e la perizia sui pochissimi resti che si credevano essere di Maria Fresu - appunto un lembo facciale con una porzione di cuoio capelluto e l'osso di una mano ritrovati solo a dicembre del 1980 - sono state ordinate a febbraio dal presidente della Corte d'Assise con l'obiettivo di verificare, grazie a tecniche ben più moderne di quelle utilizzate nei primi accertamenti, quale tipo di esplosivo fosse stato utilizzato per la strage e, partendo dalla sua composizione, circoscrivere l'ambiente in cui è maturato l'attentato.

Ma perché è stata riaperta proprio la bara di Maria Fresu? Perché, è sempre stata questa la ricostruzione degli inquirenti, "era la persona più vicina alla valigetta piazzata dagli attentatori, sul primo binario della stazione". In realtà Maria viene collocata in quel punto a posteriori, vicinissima al punto dell'esplosione solo perché sembra l'unica spiegazione plausibile alla scomparsa del suo cadavere.

Una ricostruzione che però non regge davanti alla preziosa testimonianza di Silvana Ancillotti, l'amica sopravvissuta all'attentato. La mattina di sabato 2 agosto 1980 era assieme a Maria, alla piccola Angela e a Verdiana Bivona. Era il loro primo giorno di ferie, avevano deciso di fare le vacanze insieme e aspettavano il treno per Rovereto.

Silvana ricorda che Maria non si era affatto allontanata. "Era di fronte a me, a Verdiana e alla bambina. Noi eravamo sedute. Lei era lì davanti, in piedi. Poi ci fu l'esplosione". Erano le 10,25. "Svenni. E quando riaprii gli occhi solo Maria non c'era più. Era scomparsa. Verdiana e la bambina erano a terra, di spalle. Immobili".

Isoccorsi dopo l'esplosione (Archivio L'Unione Sarda)
Isoccorsi dopo l'esplosione (Archivio L'Unione Sarda)
Isoccorsi dopo l'esplosione (Archivio L'Unione Sarda)

I RISULTATI DELLA PERIZIA - Al di là dell'esito dei test sui resti che si è accertato non essere di Maria Fresu, quali sono stati i risultati della perizia? Si tratta, va ricordato, della quarta perizia sulla strage di Bologna. Intanto - hanno scritto i periti nelle 160 pagine consegnate lo scorso giugno al presidente della Corte d'Assise Michele Leoni - c'erano undici chili di esplosivo e non 20,25 come si riteneva in precedenza. Esplosivo composto da T4 e tritolo con residui di gelatina, il contrario di quanto ritenuto finora nei processi a carico di Mambro, Fioravanti e Ciavardini.

Dall'esame del tipo di esplosivo emerge poi che Maria Fresu non può essersi smaterializzata a causa dell'ordigno. Secondo la perizia "all'epoca, le ricerche dei corpi non sono state fatte con un criterio moderno". I resti, insomma, potrebbero essere magari finiti dentro le bare di altre vittime. È quel che dice l'associazione dei parenti delle vittime. Il presidente Paolo Bolognesi ricorda bene quel 2 agosto 1980. "Era un giorno molto tragico, caotico.

Non è stato un incidente con due defunti che componi facilmente: c'erano pezzi di corpi ovunque e hanno continuato a trovarli nei giorni seguenti". Nessun colpo di scena che può cambiare le sorti del processo e la tesi sulla pista dell'eversione nera. Il fatto che quei resti non siano di Maria Fresu, ha aggiunto Bolognesi, "dal punto di vista dei rapporti umani è una questione molto delicata", pensando cioè ai parenti della giovane mamma; "ma dal punto di vista processuale non cambia niente".

Il presidente dell'associazione dei parenti delle vittime ha contestato duramente, tra l'altro, la tesi dell'ex giudice Rosario Priore, magistrato di punta negli anni del terrorismo, che nel suo libro "I segreti di Bologna" scritto con l'avvocato Valerio Cutonilli e pubblicato due anni fa, ipotizza un deliberato inquinamento delle prove e rigetta la matrice fascista della strage sostenendo invece la tesi del terrorismo internazionale filo-palestinese. "Per me e per i parenti delle vittime che fanno parte dell'associazione 2 agosto 1980 - ha avvertito Bolognesi -, la verità sarà sempre e solo questa. Sono stati i neofascisti condannati gli autori della strage, anche se nessuno è in carcere. Nei loro confronti è stata usata un'indulgenza mai vista".

Lidia Olla, 67 anni,originaria di Sinnai e residente a Cagliari.Era tra le vittime della strage. La sua foto sulla prima pagina dell'Unione Sarda del 4 agosto 1980
Lidia Olla, 67 anni,originaria di Sinnai e residente a Cagliari.Era tra le vittime della strage. La sua foto sulla prima pagina dell'Unione Sarda del 4 agosto 1980
Lidia Olla, 67 anni,originaria di Sinnai e residente a Cagliari.Era tra le vittime della strage. La sua foto sulla prima pagina dell'Unione Sarda del 4 agosto 1980

LE VITTIME SARDE - Il nome di Maria Fresu non compare nell'elenco dei morti pubblicato il giorno dopo la strage, né viene citato nel primo articolo che L'Unione Sarda dedicò ai sardi rimasti uccisi e a quelli sopravvissuti. Tra i primi corpi identificati c'era quello di Rossella Marceddu, 19 anni, famiglia di emigrati stabiliti in provincia di Vercelli. La mattina del 2 agosto era a Bologna anche Emma Cherchi, una signora di Sassari.

"Per molte ore - è il racconto sull'Unione Sarda - i parenti hanno temuto che fosse tra le vittime, poi si è fatta viva con una telefonata da Roma ai familiari che risiedono in Sardegna".

Lidia Olla era invece tra le vittime. Il suo corpo venne trasportato all'istituto di medicina legale con l'autobus della linea 37 che il giorno della strage e quello appresso restò in servizio come carro funebre facendo la spola tra la stazione e l'obitorio. Il 4 agosto sulla prima pagina del giornale c'è la foto di lei, una signora dallo sguardo mite. Aveva 67 anni, era originaria di Sinnai e abitava a Cagliari. La mattina in cui scoppiò la bomba era alla stazione di Bologna assieme al marito Pasquale Cardillo. Erano in vacanza e attendevano l'arrivo del treno che doveva portarli a Bressanone.

Non poteva saperlo, ma la sua vita e quella di tante altre persone attorno a lei era arrivata al capolinea. Pasquale, invece, fu ricoverato in ospedale con ustioni gravissime in tutto il corpo. "In preda al forte choc - è il racconto del cronista - l'uomo continua a chiedere notizie della moglie, ma nessuno ha ancora il coraggio di dirgli che è morta". Il corpo straziato della donna venne riconosciuto dalla nipote Rosalba Cardillo, studentessa di 22 anni, che viveva con la coppia di coniugi fin da quando era bambina. Li chiamava babbo e mamma. "L'ho riconosciuta subito - ha raccontato -, e il suo vestito poi mi ha levato qualsiasi dubbio. Era mamma".

L'ULTIMO GIORNO - Il corpo di Maria non si trovava. I fratelli di lei cercarono inutilmente notizie per giorni. Salvatore Fresu, il papà allora 61enne, intervistato dall'Unione Sarda il 9 agosto disse: "Vuol dire che mia figlia è saltata in aria per quella maledetta carica di tritolo. Vuol dire che quella bomba non solo l'ha uccisa, ma l'ha disintegrata". È un servizio corredato da una foto di Maria con la piccola Angela, la gioia della famiglia. I Fresu avevano lasciato Nughedu San Nicolò dodici anni prima per cercare fortuna in Toscana. Con Salvatore la moglie Rosa Piliu e i figli Francesca, Giovanna, Paola, Bellino, Maria, Giuseppina, Filomena e Isabella. "In Sardegna - raccontava Salvatore - non riuscivamo più a vivere, nessun lavoro, la terra avara. Perciò siamo partiti". Si erano stabiliti a Montespertoli, vicino a Empoli, in una cascina circondata da venti ettari di terreno. Coltivavano i campi, avevano cento pecore e qualche vacca. Stavano bene.

Maria, poi, era diventata mamma e nel '79 aveva trovato lavoro a Empoli come operaia in una fabbrica tessile. Era felice e orgogliosa. Il primo agosto 1980 cominciavano le sue prime ferie. Aveva organizzato un viaggio in montagna, a Rovereto, con due amiche, Silvana e Verdiana, e avrebbe portato con sé la piccola Angela,3 anni. Il ritorno era stato fissato per il 20 agosto: voleva vedere il lago di Garda e magari avrebbero fatto anche un giro a Venezia. E invece.

Il 2 agosto arrivarono alle 8 alla stazione ferroviaria di Empoli. Alle 10 erano a Bologna dove avrebbero dovuto prendere il treno delle 11,20 per Milano. Poi l'esplosione, il sangue, le grida. Ovunque corpi dilaniati. Ma di Maria non si trovava traccia. Nelle cronache dei giorni dopo la strage già si parlava di un giallo, di un mistero. "Ma gli esperti - scriveva Roberto Lauri sull'Unione Sarda del 9 agosto 1980 - escludono una disintegrazione così totale da non lasciare il minimo segno".

Qualcosa, aggiungeva, "per la verità si è trovata: la valigia, la borsetta personale di Maria e un suo documento nel quale, a fatica, si legge il nome del Comune toscano di Montespertoli". Mesi dopo, a dicembre, il ritrovamento del lembo facciale e degli altri resti sotto al treno fermo del binario 1. Furono frettolosamente chiusi in una bara con il nome di Maria Fresu. Oggi sappiamo che non erano suoi. E allora dov'è il corpo di Maria? Forse una risposta non arriverà mai.
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