Il 9 novembre 1971 è una data che rimarrà impressa per sempre nella memoria del nostro Paese. Esattamente 50 anni fa, a Livorno, si è consumato l’incidente più grave che ha coinvolto le nostre forze armate dalla fine della Seconda guerra mondiale: 46 le vittime italiane, tra le quali anche alcuni sardi, come sardo era il militare che ha perso la vita nelle operazioni di recupero delle salme, e 6 quelle inglesi.

Un dramma ancora più sentito da Manlio Tomassini, 70enne di Sermoneta (Latina), che quel giorno è scampato per caso alla tragedia e che ora, in occasione dell’anniversario, vorrebbe riunire gli altri sopravvissuti e i familiari dei parà morti. Domani andrà all’Altare della Patria a Roma a portare un mazzo di fiori in memoria dei soldati rimasti uccisi. Tra questi, Ettore Carta di Urzulei e Pietro Dessì di Cagliari.

LA STORIA - Il 9 novembre 1971 un C130, il Gesso 4 come era stato nominato in codice, parte da Pisa, direzione Villacidro. Precipita però in mare, nelle Secche della Meloria, nelle acque davanti a Livorno. A bordo c’erano 46 paracadutisti italiani e 6 soldati inglesi. Nessuno è sopravvissuto.

L’esercitazione Nato chiamata “Cold Stream” (“Corrente Fredda”) si svolgeva in Sardegna in quel mese e prevedeva il decollo di nove aerei militari Lockheed C-130 Hercules e un Hawker Siddeley Andover con partenza da Pisa-San Giusto per effettuare un lancio di paracadutisti italiani sulle zone di operazione. L'Hercules, matricola XV216, appartenente al No. 24 Squadron di Lyneham, si inabissa all'alba del 9 novembre.

LA PROCEDURA - Gli aerei prendevano il volo uno dopo l'altro distanziati da un intervallo di tempo tale che quando il primo arrivava sulla zona stabilita e lanciava l'ultimo paracadutista, il Direttore di lancio dell'aereo che seguiva ordinava il lancio al primo paracadutista che aveva a bordo, e così via fino all'ultimo aereo della formazione. La quota di volo doveva essere molto bassa, per sfuggire al rilevamento dei radar; solo in prossimità della zona di lancio gli aerei dovevano cabrare, ossia fare una sorta di impennata, poi ritornare a bassa quota e rientrare alla base.

Manlio, soprannome “Masticacarne” perché di professione faceva il macellaio, dopo i primi lanci a Pisa è stato mandato alla Vannucci di Livorno, compagnia mortai 120. “Ero uno specializzato al tiro, compito molto importante per ogni scaglione, tanto che solo 3 persone venivano assegnate a questo ruolo”.

In cosa consisteva?

“Dovevo dire ai mortaisti quando alzare il mortaio, fare tutti i calcoli insomma, ed entro tre tiri dovevano centrare il bersaglio”.

Manlio Tomassini quando era militare (foto concessa)
Manlio Tomassini quando era militare (foto concessa)
Manlio Tomassini quando era militare (foto concessa)

Perché ha scelto di fare il militare nei parà?

“Avevo 13 o 14 anni ed ero al mare, giocavo. C’era un signore che era un paracadutista e parlava di quel lavoro come fatto da persone speciali. Mi venne la fissa da allora. Quindi durante i tre giorni ho passato i quiz, con ottimi risultati, e mi hanno mandato a fare tutte le visite speciali in più per entrare nei parà. Avevo una grande paura di non riuscire a superarle, di aver qualcosa di sbagliato. Sarebbe stata una delusione tremenda. Per fortuna non è andata così e mi hanno preso”.

Ripercorriamo il giorno della tragedia con i suoi occhi.

“Comincio dalla sera prima: siamo tutti in sala ricreazione della caserma, qualcuno gioca a biliardino, altri bevono caffè, e i piloti che devono portarci in Sardegna bevono anche alcolici. Vado a dormire e li lascio lì. La mattina ci svegliano presto, saliamo sui camion per cominciare l’esercitazione insieme agli inglesi. Parto dalla caserma con destinazione assegnata a Gesso 4, probabilmente il foglio di carico era già compilato. Della mortai eravamo 24 o 25. Saliamo sull’aereo, me lo ricordo come se fosse adesso, mi siedo nella parte centrale, lato sinistro. Allacciamo le cinture. Poi arriva un ordine: la compagnia mortai deve scendere e salire su Gesso 5 (l’areo successivo, ndr)”.

E così cambiate, senza fare domande.

“Nessuna domanda, non si danno spiegazioni in questi ambienti. Dopo essere decollati, trascorsi 4 o 5 minuti, il nostro aereo fa due giri in tondo, tutti ci chiediamo come mai, non era normale. Sentiamo i piloti inglesi che parlano, ma noi non capiamo. Comunque facciamo regolarmente il lancio. Poi abbiamo saputo che il pilota aveva visto il Gesso 4 in mare, che era tra l’altro forza 7 o 8, e per questo faceva quei giri, per localizzare la posizione e comunicarla”.

Voi invece proseguite per Villacidro.

“Sì, io e gli altri capiamo che c’è qualcosa di strano. Lì dovevamo raggrupparci con quelli della sesta compagnia del Gesso 4 e proseguire per Elmas, a piedi. Di notte si camminava e di giorno ci dovevamo nascondere nelle capanne dove tra l’altro c’erano anche le pecore. Sentivamo le voci del capitano, dell’ufficiale, intuivamo un grave incidente ma nessuno ci diceva niente e intanto i nostri compagni non erano arrivati”.

Un tragitto di decine di chilometri.

“Una quarantina. Oltretutto pioveva a dirotto. Due o tre persone non ce l’hanno fatta, sono rimaste per strada e poi recuperate dalle camionette. Abbiamo impiegato tre giorni. Solo all’arrivo a Elmas ci hanno annunciato la tragedia della Meloria”.

Cos’ha pensato?

“Che essendo un volo tattico, in cui gli aerei dovevano procedere sotto i 50 metri per non essere individuati dai radar, in una giornata come quella del 9 novembre, ventosa, con mare forte, perché far scattare lo stesso l’esercitazione? Non eravamo in guerra, l’operazione si poteva rimandare, perché ci hanno fatto partire in quelle condizioni? Non avrebbero potuto stabilire, ad esempio, un’altezza di volo superiore? Poi è successo tutto in pochi secondi, secondo me c’è stato un vuoto d’aria, è l’unica causa immaginabile. La ricostruzione dice che l’aereo mentre risaliva ha toccato con la coda il mare, non mi sembra probabile”.

Il mare è rimasto agitato per giorni.

“Infatti il recupero delle salme è avvenuto molto tempo dopo. E anche il riconoscimento è stato difficile. Pensiamo che qualcuno aveva scambiato il proprio posto con qualcun altro, magari due amici che volevano stare vicini. I nomi sono venuti fuori solo dopo l’appello. Io tra l’altro ho fatto, come volontario, la guardia alle bare almeno 30 volte. E mi ricordo di Giannino Caria, il sardo morto durante le operazioni di recupero. Non lo conoscevo di persona, però ho bene in mente la sua tragica fine. C’è stato anche un altro sardo in quel periodo, un mio allievo che avevo soprannominato ‘Tritacarne’, un impunito direi oggi con un sorriso”.

Le vittime invece le conosceva?

“Tre di loro dormivano nella mia stessa camerata, di uno sono andato al funerale. Mia madre invece ha saputo che ero vivo solo dopo qualche giorno, quando sono riuscito a telefonare, non c’erano le comunicazioni di oggi”.

Come siete tornati in Toscana da Elmas?

“Date le condizioni del mare siamo rimasti lì per un po’, ci hanno alloggiato all’aeroporto, in un capannone, fornendoci delle brandine. La cosa buona è che da Livorno ci hanno mandato un aereo con i viveri di sostentamento perché i paracadutisti avevano un’alimentazione ‘privilegiata’ rispetto all’esercito normale, ad esempio carne tutti i giorni, anche del cioccolato. Poi una nave della Marina ci ha riportati a Livorno. E poco dopo, il 17 novembre, mi hanno fatto fare un altro lancio”.

Ha avuto paura?

“Se dicessi di no sarebbe una bugia. Ma sapevo vincerla”.

Cos’ha fatto dopo il servizio militare?

“Sono tornato a fare il mio lavoro e ho aperto una macelleria. Mi sono sposato, poi separato, e risposato”.

Ora, in occasione del 50esimo anniversario della tragedia, ha lanciato un appello per ritrovare alcuni suoi compagni.

“Sì, vorrei trovare chi era con me, quelli che hanno cambiato aereo, da Gesso 4 a Gesso 5, li ho cercati in vari modi ma non ho avuto riscontri. Domani andrò all’Altare della Patria a Roma a deporre 46 rose rosse in memoria dei parà italiani morti e 6 crisantemi per i militari inglesi. Non ci pensa lo Stato a ricordarli? Lo faccio io. In tv non ho mai visto cerimonie per la Meloria. Vengono ricordate altre stragi, anche alla presenza del Presidente della Repubblica, questa no. Per ora saremo io, i miei figli, e qualche amico”.

Cosa le è rimasto di quel giorno?

“È una cosa che ti segna, sono vivo non so per quale motivo, non ho mai capito se su Gesso 4 mi avevano inizialmente mandato per un errore di chi dirigeva le operazioni. Nessuno dava spiegazioni. E poi ho un altro ricordo”.

Quale?

“Mentre noi italiani stavamo organizzando per filo e per segno il recupero dei resti, gli inglesi hanno detto una frase: ‘Ma quale tomba è più bella del mare?’. Forse avevano ragione”.

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