Il buio è apparentemente quello di una notte qualunque. Il risveglio sarà quello di una strage, scolpita con il fuoco in quel mare colmo di petrolio, con gli occhi striati di sangue, bruciati da quel fumo che si poggia denso come una lapide sull’orizzonte della Vegliaia, la diga d’ingresso del porto di Livorno. Lì, che ondeggia come una culla di morte in mezzo al mare, c’è quel che resta di quel traghetto sponda che doveva raggiungere la terra promessa. In Sardegna, invece, il Moby Prince, non ci arriverà mai. La banchina del porto di Olbia non vedrà mai più le cime di quella nave agganciarsi alle bitte dell’isola Bianca. Quando all’alba sorvolo, con un Ch47, un bipala dell’Esercito, quella cortina di fumo davanti alla rada di Livorno, le campane del cielo risuonano mestamente. Lì sotto sono scappati tutti. A nemmeno cinquecento metri d’altezza, a ridosso di quel cumulo di lamiere arse da fuoco vero, il sorvolo cristallizza uno scatto perenne: lì sotto non è rimasto nessuno, tutti dileguati. Inermi, consumati dalle fiamme, sono rimasti solo loro, quei 140 poveri Cristi strappati alla vita per un mistero di Stato che da 32 anni contorce le viscere più profonde di quei familiari rimasti orfani eterni. Da quella nefasta notte, era il 10 aprile del 1991, sono trascorsi 11.680 giorni. Tutti senza una risposta. Senza un cenno di verità e di giustizia. Processi e inchieste si susseguono con il ritmo di un metronomo sempre proteso all’adagio, quasi che dopo tre decenni e due anni non ci fosse ancora alcuna fretta.

È flebile, quasi piatto, l’encefalogramma dello Stato quando si tratta di quella tragedia. Consulenti ed esperti che ciclicamente si attardano ad affermare, sullo stesso contesto, posizioni diametralmente opposte, insinuando sempre nuovi dubbi e nuove piste, come a depistare anziché dirimere nebbie e omissioni.

Partiamo dalle poche certezze, per tentare di non dimenticare quell’immane tragedia. Quella notte, il Moby Prince, il traghetto della Navarma, appena salpato dalla Calata Carrara, stava per lasciare la rada del Porto di Livorno per solcare la rotta verso la Sardegna. Impossibile credere alla favola della nebbia, surreale pensare ad una distrazione della plancia di comando. Di certo, alle 22.25 di quel 10 aprile 1991, quando il buio profondo avvolgeva la baia di Livorno, il traghetto Moby Prince, capovolgendo repentinamente la propria rotta si schiantava contro la petroliera Agip Abruzzo, del gruppo Eni, carica di Iranian light crude oil, petrolio iraniano. L’equipaggio della petroliera fu posto in salvo con rapidità, la Moby Prince, invece, fu trasformata in una bara di fuoco non tanto dall’incedere di quel petrolio in fiamme riversato sui ponti del traghetto, quanto dall’insipienza di soccorsi che non arrivarono mai. I tracciati radio lo scambiano addirittura per una bettolina, lasciandola in balia delle fiamme e della morte.

Centoquaranta persone tra passeggeri e equipaggio, 26 le vittime sarde, sono il bilancio della più grave tragedia di sempre della marineria italiana.

Trentadue anni dopo, con il rischio di trasformare le commemorazioni in una stanca e retorica richiesta di verità, su quel teatro di Livorno resistono, come quell’alba deserta del giorno dopo, quattro grandi misteri.

I misteri

Il primo: quali altre navi e quali traffici si stavano consumando nella rada di Livorno in quella maledetta notte? Il secondo: perché i soccorsi dello Stato non partirono mai per salvare i passeggeri della Moby Prince? Il terzo: per quale motivo la Moby Prince era assicurata per venti miliardi di lire, il triplo del suo reale valore, e per quale motivo la Navarma e l’Eni non entrarono mai in contenzioso assicurativo su quel disastro? Il quarto: come è stato possibile ignorare le tracce di esplosivo riscontrate dalla scientifica nella sala macchine della Moby Prince, ignorando le confessioni secretate di un pentito di ‘ndrangheta su una strage di mafia?

Quattro misteri e un'ecatombe giudiziaria che in più di trent'anni ha lasciato sino ad oggi impunita quella strage. In ordine di tempo, a ripercorre omissioni, segreti di Stato e traffici illegali, ci stanno provando la Procura antimafia di Firenze e quella di Livorno.

Un dato è certo in quella notte c’erano troppi elementi fuori posto. A partire dalle navi in rada, scomparse come fulmini appena vista la mal parata del disastro. C’erano, prima di tutto, le navi americane, navi militari, cariche di armi e di ogni genere di esplosivo, appena rientrate dall'Iraq. Posizionate a due passi dalla base americana di Camp Darby, uno scrigno segreto in mano al “Us Force”, a due passi da Livorno. E poi ci sono i natanti ignoti, con tanto di sigle in codice e criptate dai radar del porto. Lo si percepisce ascoltando le frequenze radio del Moby Prince, quelle del canale 16. Più che una torre di controllo sembra un centralino telefonico impazzito. Si sovrappone di tutto e di più. Tutti, quasi si fossero messi d’accordo, parlano di una bettolina in fiamme. In realtà quella avvolta dal fuoco vivo è proprio la Moby Prince.

In questa eterna omissione di Stato, però, ci sono “pizzini” e confessioni, spontanee alcune, occultate altre. I magistrati, con non poche difficoltà, stanno cercando di riavvolgere i nastri, riposizionando tasselli, omessi e nascosti.

Il contesto è inquietante, tra mafia, traffici di armi e di petrolio, coperture ad alti livelli e assicurazioni per rischio di guerra nel pacifico Tirreno.

Verità parallele e subdole, artefatte e ignorate. Di certo c’è un capitolo che resta il più oscuro, cristallizzato dagli 007 italiani che misero nero su bianco una «mappa concettuale» dedicata al «traffico di materiale bellico recuperato, di scorie nucleari e di armi». Quando gli esperti del Viminale entrarono dentro la nave sentenziarono: «Si sono evidenziate tracce di esplosivo di uso civile, rinvenuto all'interno di un locale a prua della nave, ove probabilmente alcuni istanti prima della collisione, avvenne una deflagrazione».

© Riproduzione riservata